Aiutiamoli ad Aiutare...

Contribuisci anche tu ad AIUTARE CHI AIUTA:

il ricavato dell'autore sarà totalmente devoluto all'Associazione Tuttincerchio Onlus per la realizzazione di un complesso scolastico a Bubombi in Tanzania (vai alle pagine dedicate).

I Racconti di Edoardo - Una piccola, banale, storia di strada


          Scrivo per guadagnare qualcosa. Non m’interessa la letteratura, né tantomeno il giudizio di chi legge. Ho troppi anni per avere illusioni e troppo pochi per buttar via la vita.  
I miei figli sono andati per la loro strada, a volte li sento. Poche parole e tanta ipocrisia. Siamo adulti, mi disse uno di loro. Già, siamo adulti e forse ne dovremmo provare vergogna.
Fuori piove, se ci penso, è tanto che il cielo è coperto. Poche volte ho visto il sole, quello bello, pulito, splendente, che ti lascia pensare come in fondo valga la pena lottare per un ideale.
Quando è successo, ho creduto davvero fosse possibile cambiare il mondo. Ero giovane e non ero solo, anzi, pensavamo di essere in tanti, ne eravamo certi e invece, quando siamo usciti per strada a gridare il nostro rancore, ci siamo accorti di essere pochi, maledettamente pochi e anche dalla parte sbagliata.
Ma è la vita che gira così. C’è chi perde e chi vince, il problema è che spesso a vincere sono sempre gli stessi.
E allora scrivo. Per rabbia, per amore, per dolore, per cercare di arrivare a domani. Racconto storie perché non so far altro. Ho provato mille mestieri, qualcuno mi è rimasto attaccato addosso come una seconda pelle, di altri ricordo la monotonia e il rumore, ma nessuno è riuscito a cancellare la mia insofferenza.
E allora scrivo. Scrivo storie di strada, piccole banali storie di strada. Le vendo al miglior offerente, a chi ha poco tempo per sognare, a chi apre il portafoglio perché non trova più il cuore, a chi si è smarrito guardandosi in uno specchio.
Vendo storie anche ai bambini quando si fermano vicino alla panchina dove di solito siedo a osservare i piccioni.
Dai bambini non prendo soldi, no, mi pagano con qualcosa di ben più importante. Ma non so se riuscireste a capire. No, non crediate vi voglia offendere, anch’io ci ho messo del tempo a comprendere e non è detto che lo abbia fatto del tutto.
Sapete? Ancora rimango sbalordito quando penso che tutti siamo stati bambini. Per alcuni è difficile anche solo immaginarlo. Pare un insulto alla natura e alla mia intelligenza. Eppure, mi hanno assicurato che è proprio così. Questo mi convince ancora di più dell’esistenza di Dio: solo un Padre Eterno burlone e un po’ cinico avrebbe potuto creare tanto casino qui giù. 
Torniamo ai bambini. Loro son diversi, riescono ancora a credere che un sorriso sia perché si è felici e un pianto non possa essere falso.
Stupidi bambini, lasciano a noi l’incombenza di smaliziarli e distruggere il proprio universo per poi aspettare il momento di rinfacciarci d’averlo fatto. Ma io, almeno su questo, son smaliziato e adesso cerco di lasciarli crescere con la certezza che le fate abbiano veramente un vestito turchino e il bene trionfi sempre sul male.
Che ore sono? E’ ancora scuro, e poi son solo alla prima pagina di questo racconto privo di senso.
Sorrido, stanotte non ho ispirazione. Spesso la trovo nei frammenti di ricordi che emergono dalle nebbie del tempo. Sprazzi di luce, luminosi squarci che rimangono lì, ancorati a un niente, preziosi perché fanno parte di me.
Ma sono immagini senza storia. Per questo mi sforzo a inventarle, per colmare il mio vuoto.
Lo so, pensate sia pazzo o al limite un povero cristo sbandato. Vi sbagliate: né l’uno né l’altro, al massimo sono uno di voi.
Adesso basta, devo uscire. Una boccata d’aria può aiutare a soffiar via il velo di polvere che ricopre il cuore e la mente, lasciando passare almeno un ricordo che, pur se confuso, mi dia ispirazione.
Scendo le scale, la luce artificiale sta lasciando il posto al mattino. Non mi ero accorto che la notte era passata portandosi via anche la pioggia.
Lascio l’ombrello appoggiato al portone ed esco per strada.
L’aria è fresca, sa di primavera, un timido sole comincia ad asciugare l’asfalto, se ne avverte il profumo.
Un gatto con una macchia nera sugli occhi e la coda segnata dal morso di un cane mi fissa come se avesse visto un conoscente, qualcuno di cui si sono perse le tracce e d’improvviso lo ci si trova davanti.
Buongiorno gli dico, convinto di vederlo scappare appena udita la voce. Rimane fermo e continua a guardarmi. La situazione comincia a darmi fastidio. Un animale ha negli occhi tanta verità, troppa per noi abituati a nasconderla.
Pussa via, gli grido con la forza di chi si sente potente. Nemmeno stavolta si muove. Tiro dritto, stufo di perder tempo in quel modo. Il gatto prende a seguirmi. Sono certo d’averlo alle spalle, ne avverto la presenza ma non mi volto per paura d’avere ragione. Una strana ansia mi assale. Sarebbe stato meglio avesse continuato a piovere. Essere seguiti da un gatto, in una strada del centro, mentre la gente è impegnata a fuggire dal proprio destino, non è proprio una faccenda da niente. Decido per un caffè. Ecco un bar, al chiuso sarò certamente al sicuro. 
Entro esibendo una certa spavalderia. Il barista chiede se il gatto è mio. Spesso le risposte da dare agli altri son più semplici delle domande da porre a noi stessi: rispondo di si. 
Senza pensarci lo prendo posandolo sullo sgabello vicino. L’animale non si ribella. Il barista ha voglia di mandarci al diavolo, ma non dice nulla aspettando l’ordinazione.
Il gatto comincia a fare le fusa e una ragazza intenta a bere il suo buongiorno quotidiano sorride allungando una mano per carezzarlo.
-        Come si chiama?
-        Micio - rispondo a colpo sicuro.
Lei ride. Con un tocco leggero di mano, sposta i capelli dagli occhi.
-        È un nome ambizioso, è come se qualcuno tra noi si chiamasse Uomo. Quanti potrebbero portare un nome del genere senza apparire ridicoli?
Ha uno sguardo intenso e profondo. Fa impressione. Somiglia in modo assai strano a quello del gatto e non solo. La guardo mentre a sorsi gusta l’imbarazzo in cui mi ha gettato.
Il barista si rivela un amico: riempie il mio bicchiere senza versar nulla. Lo ringrazio con un cenno della testa, il gatto fa altrettanto.
La ragazza fruga nella borsa, sembra affannarsi nella ricerca. Tira fuori un mazzo di chiavi, un paio di occhiali da sole e altre piccole cose prima di porgermi un pezzo di carta. Lo prendo con attenzione, intuisco che per lei deve essere importante.
-        E’ una vecchia foto - esclamo sorpreso.
-        No - mi corregge - è una foto vecchia.
Ancora una volta rimango perplesso. Il barista, che intanto ascolta sornione, ride forte.
-        Ha ragione, la ragazza ha ragione - afferma asciugando una tazza.
-        È lo stesso di quello che ho detto - rispondo irritato.
-        No, è diverso - replica la ragazza rimettendo nella borsa la roba poggiata sul banco.
Decido di lasciar correre e ritornare alla foto. Un uomo tiene per mano una bimba e sorride: insieme fissano un punto.
-        Mi ricordi mio padre - dice la giovane riprendendo la foto.
-        E a me ricordi mia figlia - le rispondo mentendo.
Il barista intanto si è allontanato, un cliente ha chiesto del vino.
-        Da quando non lo vedi? - chiedo senza sapere il perché.
-        E tu, da quando non vedi tua figlia? - domanda a sua volta.
-        Cosa stavate guardando?
-        Non ci crederai, un gatto simile al tuo.
-        È passato tanto tempo, come fai a ricordarti del gatto?
-        Ci son cose che non si dimenticano. Dovresti saperlo…


Nessun commento:

Posta un commento