Scrivo per guadagnare qualcosa. Non m’interessa la letteratura, né tantomeno il giudizio di chi legge. Ho troppi anni per avere illusioni e troppo pochi per buttar via la vita.
I miei figli sono andati per la loro strada, a volte
li sento. Poche parole e tanta ipocrisia. Siamo adulti, mi disse uno di loro.
Già, siamo adulti e forse ne dovremmo provare vergogna.
Fuori piove, se ci penso, è tanto che il cielo è
coperto. Poche volte ho visto il sole, quello bello, pulito, splendente, che ti
lascia pensare come in fondo valga la pena lottare per un ideale.
Quando è successo, ho creduto davvero fosse possibile
cambiare il mondo. Ero giovane e non ero solo, anzi, pensavamo di essere in tanti,
ne eravamo certi e invece, quando siamo usciti per strada a gridare il nostro
rancore, ci siamo accorti di essere pochi, maledettamente pochi e anche dalla
parte sbagliata.
Ma è la vita che gira così. C’è chi perde e chi vince,
il problema è che spesso a vincere sono sempre gli stessi.
E allora scrivo. Per rabbia, per amore, per dolore,
per cercare di arrivare a domani. Racconto storie perché non so far altro. Ho
provato mille mestieri, qualcuno mi è rimasto attaccato addosso come una
seconda pelle, di altri ricordo la monotonia e il rumore, ma nessuno è riuscito
a cancellare la mia insofferenza.
E allora scrivo. Scrivo storie di strada, piccole
banali storie di strada. Le vendo al miglior offerente, a chi ha poco tempo per
sognare, a chi apre il portafoglio perché non trova più il cuore, a chi si è
smarrito guardandosi in uno specchio.
Vendo storie anche ai bambini quando si fermano vicino
alla panchina dove di solito siedo a osservare i piccioni.
Dai bambini non prendo soldi, no, mi pagano con qualcosa
di ben più importante. Ma non so se riuscireste a capire. No, non crediate vi
voglia offendere, anch’io ci ho messo del tempo a comprendere e non è detto che
lo abbia fatto del tutto.
Sapete? Ancora rimango sbalordito quando penso che
tutti siamo stati bambini. Per alcuni è difficile anche solo immaginarlo. Pare
un insulto alla natura e alla mia intelligenza. Eppure, mi hanno assicurato che
è proprio così. Questo mi convince ancora di più dell’esistenza di Dio: solo un
Padre Eterno burlone e un po’ cinico avrebbe potuto creare tanto casino qui
giù.
Torniamo ai bambini. Loro son diversi, riescono ancora
a credere che un sorriso sia perché si è felici e un pianto non possa essere
falso.
Stupidi bambini, lasciano a noi l’incombenza di
smaliziarli e distruggere il proprio universo per poi aspettare il momento di
rinfacciarci d’averlo fatto. Ma io, almeno su questo, son smaliziato e adesso cerco
di lasciarli crescere con la certezza che le fate abbiano veramente un vestito
turchino e il bene trionfi sempre sul male.
Che ore sono? E’ ancora scuro, e poi son solo alla
prima pagina di questo racconto privo di senso.
Sorrido, stanotte non ho ispirazione. Spesso la trovo
nei frammenti di ricordi che emergono dalle nebbie del tempo. Sprazzi di luce,
luminosi squarci che rimangono lì, ancorati a un niente, preziosi perché fanno
parte di me.
Ma sono immagini senza storia. Per questo mi sforzo a
inventarle, per colmare il mio vuoto.
Lo so, pensate sia pazzo o al limite un povero cristo
sbandato. Vi sbagliate: né l’uno né l’altro, al massimo sono uno di voi.
Adesso basta, devo uscire. Una boccata d’aria può
aiutare a soffiar via il velo di polvere che ricopre il cuore e la mente, lasciando
passare almeno un ricordo che, pur se confuso, mi dia ispirazione.
Scendo le scale, la luce artificiale sta lasciando il
posto al mattino. Non mi ero accorto che la notte era passata portandosi via
anche la pioggia.
Lascio l’ombrello appoggiato al portone ed esco per
strada.
L’aria è fresca, sa di primavera, un timido sole
comincia ad asciugare l’asfalto, se ne avverte il profumo.
Un gatto con una macchia nera sugli occhi e la coda
segnata dal morso di un cane mi fissa come se avesse visto un conoscente,
qualcuno di cui si sono perse le tracce e d’improvviso lo ci si trova davanti.
Buongiorno gli dico, convinto di vederlo scappare
appena udita la voce. Rimane fermo e continua a guardarmi. La situazione
comincia a darmi fastidio. Un animale ha negli occhi tanta verità, troppa per
noi abituati a nasconderla.
Pussa via, gli grido con la forza di chi si sente
potente. Nemmeno stavolta si muove. Tiro dritto, stufo di perder tempo in quel
modo. Il gatto prende a seguirmi. Sono certo d’averlo alle spalle, ne avverto
la presenza ma non mi volto per paura d’avere ragione. Una strana ansia mi
assale. Sarebbe stato meglio avesse continuato a piovere. Essere seguiti da un
gatto, in una strada del centro, mentre la gente è impegnata a fuggire dal
proprio destino, non è proprio una faccenda da niente. Decido per un caffè.
Ecco un bar, al chiuso sarò certamente al sicuro.
Entro esibendo una certa spavalderia. Il barista
chiede se il gatto è mio. Spesso le risposte da dare agli altri son più
semplici delle domande da porre a noi stessi: rispondo di si.
Senza pensarci lo prendo posandolo sullo sgabello
vicino. L’animale non si ribella. Il barista ha voglia di mandarci al diavolo,
ma non dice nulla aspettando l’ordinazione.
Il gatto comincia a fare le fusa e una ragazza intenta
a bere il suo buongiorno quotidiano sorride allungando una mano per carezzarlo.
-
Come si chiama?
-
Micio - rispondo
a colpo sicuro.
Lei ride. Con un tocco leggero di mano, sposta i
capelli dagli occhi.
-
È un nome ambizioso, è come se
qualcuno tra noi si chiamasse Uomo. Quanti potrebbero portare un nome del
genere senza apparire ridicoli?
Ha uno sguardo intenso e profondo. Fa impressione.
Somiglia in modo assai strano a quello del gatto e non solo. La guardo mentre a
sorsi gusta l’imbarazzo in cui mi ha gettato.
Il barista si rivela un amico: riempie il mio
bicchiere senza versar nulla. Lo ringrazio con un cenno della testa, il gatto
fa altrettanto.
La ragazza fruga nella borsa, sembra affannarsi nella
ricerca. Tira fuori un mazzo di chiavi, un paio di occhiali da sole e altre
piccole cose prima di porgermi un pezzo di carta. Lo prendo con attenzione,
intuisco che per lei deve essere importante.
-
E’ una vecchia
foto - esclamo sorpreso.
-
No - mi corregge
- è una foto vecchia.
Ancora una volta rimango perplesso. Il barista, che
intanto ascolta sornione, ride forte.
-
Ha ragione, la
ragazza ha ragione - afferma asciugando una tazza.
-
È lo stesso di quello
che ho detto - rispondo irritato.
-
No, è diverso - replica
la ragazza rimettendo nella borsa la roba poggiata sul banco.
Decido di lasciar correre e ritornare alla foto. Un
uomo tiene per mano una bimba e sorride: insieme fissano un punto.
-
Mi ricordi mio
padre - dice la giovane riprendendo la foto.
-
E a me ricordi
mia figlia - le rispondo mentendo.
Il barista intanto si è allontanato, un cliente ha
chiesto del vino.
-
Da quando non lo
vedi? - chiedo senza sapere il perché.
-
E tu, da quando
non vedi tua figlia? - domanda a sua volta.
-
Cosa stavate
guardando?
-
Non ci crederai,
un gatto simile al tuo.
-
È passato tanto
tempo, come fai a ricordarti del gatto?
-
Ci son cose che
non si dimenticano. Dovresti saperlo…
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