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I Racconti di Edoardo - Sarah aveva un cane


“Sarah aveva un cane e lo amava profondamente. Era un bell’animale dal pelo lungo e fulvo con grandi zampe fatte per correre e saltare. Quando lo ebbe in dono somigliava tanto ad un gomitolo di lana morbida, uno di quelli che si usano per fare lavori a maglia e che una mano scostumata avvolge malamente. Per Sarah fu il primo regalo, o almeno il primo che ricordava, forse per questo ogni particolare di quel momento le rimase impresso nella mente: le grandi mani di papà, la cesta di vimini dal manico di raso azzurro, il sorriso della mamma. Persino i colori e gli odori erano ancora vivi come il profumo pungente del cucciolo dalla lingua irrequieta e le tinte pastello dei fiori dipinti sulla tenda che copriva la finestra. Il cagnolino intanto cresceva e senza troppa fretta le aveva quasi raggiunto le spalle. Lei lo guardava affascinata correre lungo il prato vicino casa e saltare sulle panchine verdi del parco. E più se ne compiaceva, più il cane pareva correre forte e saltare alto. La gente del posto ormai conosceva bene Ruffo, il cane di Sarah, il suo abbaiare e le lunghe trecce della bimba…”
Così le diceva la mamma. A lei piaceva sentirsi raccontare quei momenti ogni volta con un nuovo particolare, era il suo ascoltare l’amore. Allora Sarah abitava nella casa di fronte alla latteria di Ivan, un russo trapiantato lì da qualche anno dagli occhi verdi e il ciuffo impertinente. Le era simpatico quel tipo che parlava in modo strano e regalava biscotti di mandorla macchiati di cioccolato. Suo padre andava spesso a trovarlo e non solo per comprare latte o biscotti. Avevano molto in comune considerato le lunghe chiacchierate che facevano.
L’inverno arrivò rigido ed improvviso. Ruffo e Sarah non si lasciarono intimidire dal candore della neve e dal vento tagliente. Anzi, pareva traessero energia dal freddo e il loro correre divertiva la gente che, intirizzita, li guardava passare. Ben presto si aggiunsero altri bambini e poi altri ancora. Il ghetto sembrava aspettare con ansia il passaggio di quella torma dalla vitalità esplosiva e dalle risate argentine, così come accadeva per Gad e Ariel i due musici ambulanti che nei giorni di festa cantavano della terra promessa.
Fu in una mattina di Aprile che disegnarono la prima stella. Sarah e Ruffo erano lì quando alcune persone dagli stivali sporchi vennero coi barattoli di vernice a fare quel bel disegno proprio al centro delle lastre sempre ben pulite della latteria. Lei raccontò alla mamma cos’era successo e la faccia buffa di Ivan mentre quegli uomini gli regalavano la stella. Sarah non capì il perché la mamma la stringesse forte al petto.

Amina ama addormentarsi al canto malinconico del vecchio padre. La polvere le graffia gli occhi mentre guarda il fratello giocare con pietre grosse e pesanti. Una volta sentì il vecchio padre raccomandargli di lasciar stare quel gioco, che mai avrebbe vinto contro “quelli”. Ricordando quel momento gli si avvicina per chiedere chi sono “quelli”. Il fratello la prende per mano indicando l’altura di Jenin da cui giunge un rombo strozzato e il fumo bianco della polvere che sale nel cielo. È il rumore e la polvere di sempre, cosa c’entrano con le parole del vecchio padre? Stanca di non capire raggiunge le piccole amiche sedute lungo la strada che porta alla casa di Yasir. Insieme cominciano a cantare la canzone degli anziani. Ad Amina quel canto piace, le dà allegria ed un brivido incomprensibile.
È l’alba, un frastuono improvviso sveglia tutti. Uomini con la ragione delle vittime e la forza delle armi cacciano la gente fuori dalle case. Amina cerca il fratello e lo vede mentre alcune persone dagli stivali sporchi lo trascinano via, sente il vuoto riempire lo stomaco e le lacrime bruciare la pelle. Un fragore immane e una luce improvvisa cancella ogni cosa. La testa comincia a girare, forte, sempre più forte, la mente si annebbia, urla troppo simili a quelle che hanno scatenato la vendetta tagliano l’aria.
Ora è distesa in un letto, sul capo una tenda dal tenue color del niente, di lato una finestra dalla quale fa mostra di se un prato troppo curato per conoscere il passo dei bambini. Non è la sua casa. S’alza di scatto e di scatto si getta dalla branda. C’è un odore pungente di disinfettante. Apre la finestra e senza pensarci salta sul davanzale, con un balzo è fuori. Comincia a correre, e più corre più il prato sembra allungarsi. Un cagnolino dalle zampe forti fatte per correre e saltare le viene dietro. Lei sente la presenza dell’animale e girandosi ricorda di essere bambina. Si fermano insieme, forse hanno lo stesso bisogno.

Una mano le tocca la spalla. Ha una stretta leggera, chiede qualcosa. Amina risponde asciugandosi il naso con un braccio. L’anziana donna con un numero impresso a fuoco sul polso sorride e le siede accanto sul prato. Il vento solleva i capelli nel pomeriggio senza sole, la terra sotto le mani è umida, la stessa umida terra per lei e la bambina. Con gentilezza riesce a farla parlare. È un racconto confuso, in cui la nebbia dei ricordi si mischia a quella del campo. È il racconto di una bimba.

La donna dal volto di rughe guarda il cane e Amina, antiche memorie le salgono agli occhi e tutto assume l’aspetto di un’assurda follia. Con dolcezza stringe la piccola tra le braccia e cullandola comincia a raccontarle una storia: Sarah aveva un cane e lo amava profondamente…