Quanto tempo è passato? Secoli. Eppure le voci hanno l’intensità di
allora, anche gli odori sono gli stessi, ed uguali sono le case perse tra le
montagne ed il cielo pesante. Sono tornato, ma non c’è nessuno ad aspettare.
Lascio la macchina poco lontano, non faranno male quattro passi a piedi tra i
vicoli una volta conosciuti. Lì abitava Zipietro, un uomo dalle grandi mani e
dalla parola facile, era un parente di mia madre, uno zio forse o qualcosa di
simile. Il giorno in cui andai via fu l’unico ad accompagnarmi al camion che mi
avrebbe portato in città. “Quando tornerai sarà diverso. Tutto.” Disse. Lo
guardai senza comprendere e non pensai più a quelle parole. Si sbagliava, è
tutto uguale invece, come il cane che sento abbaiare e l’umido dell’aria.
Bisogna esserci cresciuto in un paese così per capire il vento tra le case ed i
rumori della montagna. Tra poco pioverà. Alzo il bavero del cappotto mentre
ritrovo i campi dove ho lasciato la fanciullezza. Sono coperti di nebbia, lo erano
pure quel pomeriggio quando ho visto mio padre chino contro il tramonto
tracciare solchi ed asciugarsi il sudore con un braccio: era minuto e curvo in
un orizzonte immenso, indifeso tra giochi di luce opaca e colori accennati.
Avrei voluto tirarlo via, strapparlo a questa maledetta terra, gridargli di
sputare l’anima per essere almeno come il podestà Feliciello, uno che era stato
anche a Roma. Non feci nulla, rimasi a guardarlo mentre un sole malaticcio e
offuscato calava. Fu allora che decisi di andar via, di essere diverso da quel
puntino perso nel confine tra cielo e terra. Il destino io lo avrei cercato
senza aspettarlo. Ho fatto bene, ne sono convinto oggi più di ieri.
Ecco, qui stava il dottor Sanzi, il farmacista. Chissà se la figlia vi
abita ancora. Maria era la più carina del paese, non ho voglia di vederla, non
so se sopporterei i segni della mia vecchiaia sul suo viso. Una volta tentai di
baciarla, lei rise. Si fidanzò con il figlio di Feliciello, Luciano. Un ragazzo
più grande di noi con l’avvenire assicurato. Un’assicurazione chiusa
bruscamente su un gelido manto di neve. Non ho mai saputo chi lo uccise e per
la verità manco m’interessa. Lo vedevo spesso parlare con mio padre. Chissà
cosa diavolo avessero da dirsi, o meglio cosa gli dicesse Luciano. Bah, meglio
avanzare il passo, la casa di nonna Terè sta oltre la piazzetta della chiesa e
voglio chiudere presto la storia dell’eredità. La casa la dessero a chi la
vuole, non saprei cosa farmene. Ho un solo figlio ed ha altre cose per la
testa, per il resto soltanto il pensiero di dover tornare qui mi da fastidio.
- Angiolè…Angiolè…- Cerco di capire chi sia a chiamare: ha il capo
coperto e ciuffi di capelli grigi escono scomposti dallo scialle. Comincia a
piovere.
- Angiolè so’ Linuccia, ‘a figlia e Rosetta -
Linuccia. La piccola Linuccia. Pensavo fosse scappata anche lei, cosa ci
fa sepolta qui? Voleva studiare, ero certo di non rivederla più. Le scopro il
capo, i suoi occhi sono lucenti. - Ciao piccire’- le dico a fatica. - Ciao
Angiolè - risponde baciandomi la guancia. Per la miseria, sto diventando
vecchio davvero, provo uno strano groppo alla gola. -Avevano detto che saresti
tornato, ma non ci ho creduto, mi sembra incredibile. -
- Da quanto non ci vediamo?- chiedo cercando di ripararmi dal vento che
violenta la pioggia sottile.
- Trentotto anni, Angiolè, trentott’anni e otto mesi - dice abbassando
lo sguardo. Provo un certo imbarazzo al rossore che le passa sul viso. Altra
gente ci viene incontro. Tra loro riconosco un uomo dai pantaloni troppo corti.
Come quando giocavamo nei campi, immaginando d’essere noi a decidere le sorti
della guerra. Lo abbraccio, non potrei fare altrimenti. - Come stai Cesari’? -
- ‘A vicchiariell, Angiolè. ‘A vicchiariell - Dice mentre avverto lo
stesso profumo di menta che aveva addosso da ragazzo. Gli altri non li ho mai
visti. Volti che nulla hanno a che fare con il mio paese. Meglio, è più facile
riprendermi dall’inaspettata emozione che sta attanagliando i pensieri. Cerco
di distrarmi chiedendo dove dobbiamo andare, ma le parole arrivano ovattate e
confuse. Cesare dice qualcosa, non so cosa, vedo Linuccia stringersi al suo
braccio. Capisco dall’intimità dei movimenti che la vita deve averli uniti.
Forse è questo il motivo per cui è restata dando un calcio ai sogni di bambina.
Non avrei mai pensato che Cesare…
La piazza è sempre quella, la fontana è rimasta al suo posto, come pure
il bar sotto al municipio. Certo le macchine parcheggiate sono una novità, e
nuove sono le tende bianco azzurre del locale che era di don Franco il
barbiere. Ora c’è una gioielleria, guardo distrattamente la vetrina, orologi e
monili fanno bella mostra di se. Una volta sarebbero rimasti lì ad ammuffire.
Vedo qualcuno sporgersi fuori dalla porta, è un viso sconosciuto. Franco era
più basso e grassottello. Ma che dico… ora avrebbe cent’anni. Un bambino con il
passo di chi ha fatto tardi a scuola lancia un’occhiata distratta, forse
nemmeno mi vede. Vorrei fermarlo, raccontargli che quella strada l’ho fatta
anch’io, ma non credo capirebbe. Domando a Cesare quanto dista l’ufficio
dell’avvocato, da un gesto della testa capisco di essere arrivati.
Sono ormai le undici. L’avvocato ha detto di dover aspettare ancora
qualcuno prima di poter cominciare. La cosa non mi disturba. Chiedo a Cesare di
accompagnarmi al cimitero. Non ci sono mai stato. Quando i miei morirono ero
lontano. Seppi della disgrazia mesi dopo, da una lettera scritta dal dottor
Sanzi nella quale, raccontando della caduta nel dirupo vicino al fiume, ci
tenne a dirmi che li avevano trovati quasi abbracciati. Chissà se io fossi
rimasto... Comunque poco importa, ora sono qui e devo andare, anche perché so
che non ci saranno altre occasioni.
Il cancello, quello che per noi bambini era il confine dell’ardire, è lo
stesso. Sorrido pensando a quando toccò a me scavalcarlo per dar prova di
coraggio. Faceva caldo, eppure il sudore che scendeva sulle tempie era più
freddo del ghiaccio.
Entriamo dirigendoci verso un vialetto stretto. Lo attraversiamo, gli
alberi ai lati sono tetre figure. – A primavera è tutto fiorito – dice Cesare
leggendo i miei pensieri. Apprezzo l’intenzione di rassicurarmi. In fin dei
conti - vorrei dirgli - qui o altrove, per loro non fa alcuna differenza, ma
resto in silenzio scuotendo il capo.
Le lapidi sono l’una vicina all’altra ed hanno la stessa fotografia. Chi
ha voluto così è stato riguardoso. Li rivedo insieme. La foto non la conoscevo,
quel modo di fissare l’orizzonte si. Mi fermo poco, il tempo di dire l’unica
preghiera che ricordo, eppure quando giro le spalle sento che c’era chi
aspettava quel momento da anni.
Ha smesso di piovere. L’avvocato ci informa che gli altri non verranno e
occorrerà rinviare, forse di un paio di giorni. Questo manda a monte i
programmi, comunque basta qualche telefonata ed è tutto a posto. Rimango.
Il tentativo di andare nell’albergo poco distante è inutile. Linuccia e
Cesare si oppongono, per loro è una questione d’orgoglio. La casa è calda ed
accogliente. Il figlio più grande si chiama come me, è un veterinario e tra
qualche mese si sposa, naturalmente sono invitato, accetto con entusiasmo, ma
so bene che non ci andrò. La seconda è una “ribelle” dice Linuccia, ma ha i
suoi stessi lineamenti gentili ed il profumo del padre.
A tavola lo scarso, residuo, disagio sparisce tra un bicchiere di vino e
i ricordi comuni. Cesare è stato bravo come padre e come marito. È evidente.
Provo un fastidioso senso di frustrazione pensando alla mia famiglia. Cesare è
stato bravo, molto più di me.
Mi accorgo adesso di non essere preparato a passare la notte fuori. -
Per una volta avrai tu i calzoni corti - dice con un sorriso Cesare facendo un
piccolo cenno alla moglie immediatamente corrisposto. Accompagnandomi nella
camera del ragazzo, Linuccia racconta degli anni volati via insieme a Cesare.
Parla dei momenti di gioia e di rabbia, delle difficoltà e dei figli. La fisso
mentre rifà il letto. Ha i capelli raccolti alla nuca. È aggraziata nei
movimenti. Sente il mio sguardo, alza la testa, ho l’impressione che vorrebbe
dire qualcosa, poi si passa le dita tra le ciocche grigie e tace.
Sono stato fortunato, il ragazzo ha la mia stessa taglia e finalmente mi
sono liberato della giacca e della cravatta. Seduti vicino al cancelletto in
fondo al viale che dà sulla casa, parliamo di cose banali. Nessuno dei due ha
voglia di chiedere all’altro della propria vita. Meno che mai io. Si starebbe
meglio dentro, lo so, ma respirare quest’aria aiuta a sentirsi vivo. Poche
figure attraversano il paese. Grida di bambini giungono dalla piazza. Tra poco
tutto sarà silenzio. Ho una domanda che vorrei fare. Guardo Cesare, ha
cent’anni di troppo e le mani diverse dalle mie. Se non lo chiedo adesso non lo
farò più. Mi osserva, forse ha capito.- Sai dove li hanno trovati? - chiedo
tutto di un fiato. - Certo - risponde per niente meravigliato - se vuoi domani
ci andiamo. - Faccio di si con la testa.
Riprendiamo a guardare lontano ed a parlare di cose banali.
È difficile che mi svegli tanto presto e che dalla finestra veda questi
colori. In un lampo sono a terra. Come un bambino stupito da uno spettacolo
straordinario, pulisco con la mano il vetro appannato dalla notte e riscopro
sorpreso la nebbia carezzare la strada, ammantarla di un chiarore latteo,
avvolgerla in una misteriosa coltre di niente. Apro le imposte. È nei polmoni la
differenza dal mio appartamento, bello, caldo e anonimo. Ho bisogno di un
caffè, l’aroma è nell’aria.
Linuccia si è preparata prima di fare colazione. Non credo che se fosse
una giornata qualunque a quest’ora sarebbe pettinata e vestita. I ragazzi la
prendono benevolmente in giro, Cesare è già uscito. Scendendo le scale avverto
un calore dimenticato, vorrei fermare il tempo e passare il resto della vita a
guardarli, così attorno al tavolo alle sei e mezza del mattino.
Attraverso il paese ancora sonnacchioso, il rumore di un paio di auto
taglia la piazza mentre entro nel bar. Non ne ho voglia, ma prendo un caffè
macchiato ed un grappino.
Pian
piano il locale si riempie, ognuno raggiunge inconsapevolmente il suo posto.
Potrebbero bendarlo il padrone, saprebbe lo stesso dove portare, ed a chi, ogni
cosa. Cesare arriva poco dopo. Ha una pesante giacca di velluto marrone ed un
cappello di flanella. Saluta gli altri e mi presenta. Qualcuno conosceva mio
padre, un tizio dai capelli rasati dice di ricordarsi di me. Ignoro chi sia.
Scambiamo quattro chiacchiere di cortesia e poi usciamo. - Vuoi andare ora? -
Non ho tentennamenti, ma il cuore batte forte.
Il viottolo è un tappeto bagnato di foglie secche dal quale fa capolino
un terreno bruno, generoso e robusto. Fogliame e arbusti intricati accompagnano
la nostra salita, ogni tanto un roccia dimostra la sua potenza violentando il
verde torbido del paesaggio. Saliamo, devo fermarmi un paio di volte fissando
la tinta del mio fiato. Non sono abituato. Senza vederlo odo lo scroscio del
fiume. - È a pochi passi - avvisa Cesare, non lo rammentavo tanto turbolento.
Due uccelli scuri ci tagliano la strada, sono certo che se sapessero imprecare
lo avrebbero fatto volentieri. Ora le foglie diventano più rade e fosche. La
montagna impone i suoi colori fatti di pietra, muschio e rigore. Gli alberi
hanno le fogge misteriose volute dal vento.
- È stato lì che li hanno trovati - dice Cesare indicando un dirupo.
Sono senza parole. Siedo su quello che rimane di un tronco. Forse è la fatica,
ma vedo ombrato. Sento sulla spalla la mano del mio compagno. Forse è la fatica
a far scendere le lacrime.
- Ricordo quel giorno - comincia a parlare Cesare sentendone quasi il
dovere - era da poco passato mezzogiorno quando Zipietro entrò in paese
urlando. Non potevamo immaginare cosa fosse successo. In chiesa c’erano tutti.
Probabilmente anche chi…-
Ci vuole qualche minuto per capire che la cronaca non avrà seguito. -
Anche chi… cosa?- chiedo con una curiosità appena accennata. Cesare si alza e fa
per tornare sui suoi passi. No, caro amico, così non vale. Lo fermo quasi con
sgarbo: - Perché non continui?- domando accorgendomi del suo turbamento.
-
Angiolè è passat tantu tiemp’, so storie che nun
ricord chiù nisciune. Lascia stà. -
-
Lascia stà che cosa? Cesarì, erano mamma e papà…-
-
E t’ho ricuord mo’? - risponde con un’inattesa
inquietudine - Angiolè tu è cose nun e sai, nun le mai saput, che ti importa
adesso?-
La rabbia cresce, insensata, irrefrenabile. Lo vorrei colpire, farlo
tacere, ma non saprei mai ciò che lui sa. Devo stare calmo, adesso devo
ragionare.
-
Cesare, - gli dico accendendo una sigaretta - io
non potevo rimanere. Non sopportavo più d’accettare passivamente ogni cosa
capitasse. Eravamo persi Cesarì lo capisci, eravamo ragazzi ed il mondo già ci
sfuggiva di mano. Io ho tentato quantomeno di costruirmelo il futuro. Cosa
dovevo fare? Restare qui a spaccarmi la schiena subendo l’arroganza di quello
stronzo di Feliciello e del figlio? No, Cesarì, no. Papà aveva fatto la sua
scelta perché avrei dovuto pagarla anch’io?-
Togliendosi il cappello si aggiusta i pochi capelli rimasti. Lo fisso:
sta valutando se parlare o meno. La sua sarà una decisione definitiva. Era così
fin da ragazzo. All’improvviso fa segno di sedere, prende una sigaretta dal mio
pacchetto e comincia a raccontare.
Scendiamo in silenzio. Questi luoghi ora appaiono sconosciuti e ostili.
Loro sapevano. Sono stanco. Scene smarrite nel tempo assumono un aspetto
diverso. Gesù. Non avevo capito niente. E mi hanno lasciato andare senza dire
nulla. Cesare è avanti di qualche passo, ora sono io ad avere cent’anni di
troppo. Anche mia madre allora, l’unica a cui confidavo ogni segreto ha
taciuto. Sempre. Arriviamo in paese ed è come se avessi tutti gli sguardi
addosso. Quanti di loro sanno. Vorrei bere qualcosa, ma non mi va di entrare
nel bar. Imbocco il vialetto della casa di Cesare. Linuccia è lì a parlare con
la figlia. Le passo davanti ad occhi bassi. Sono sicuro che Cesare le avrà
fatto un segno. Mi lascia stare. Il caldo della stanza è opprimente. Apro la
finestra, scorgo la casa dove abitavo. Rimetto il cappotto e vado. Il cortile è
piccolo, lo ricordavo immenso. Si odono voci. Mi pare di riconoscere quella di
mia madre. Il freddo comincia a mordere le gambe. Torno a casa mentre inizia a
piovere. Devo telefonare all’avvocato. Devo telefonare…
A tavola l’atmosfera è pesante. Cesare avrà raccontato a Linuccia cosa è
successo. Le avrà detto della mia reazione stupida e incontrollata. La ragazza
è chiusa in se stessa. C’è rispetto in quel silenzio. Il rumore dei bicchieri e
delle posate copre il respiro della casa. Tocca a me. Sono io a dover parlare.
Lo farò, dopo lo farò…
-
Perché nessuno ha mai fatto in modo di farmelo
sapere? - chiedo a Cesare che sta fumando. Linuccia è intenta a lavare i
piatti, chiude la fontana e, asciugandosi con un panno colorato, siede vicino a
noi, poggia la mano su una gamba del marito: - Cosa sarebbe cambiato? Fu
Zipietro a decidere. Io c’ero quando lo stabilirono, ero nascosta dietro la
porta perciò venni a sapere cos’era veramente successo. Ricordo che la lettera
fu scritta dal dottor Sanzi in questa stanza. Zipietro dettava le parole
pensandole con calma. Che senso avrebbe avuto allora dirti la verità? –
-
Poi il tempo passa – continua Cesare – e ci si
chiede se è giusto riportare in vita un dolore ormai rassegnato. Tu sei partito
ragazzo e non so per quanto tempo lo sei stato. Qui abbiamo dovuto crescere in
fretta. Troppo. Il silenzio ha il suo prezzo. Perché farlo pagare pure a te?–
Già, a che scopo distogliere il conquistatore della terra dalle sue
battaglie rivelandogli che il padre e la madre sono stati uccisi perché
combattenti senza divisa di una guerra fatta di dignità e coraggio. Dei poveri
contadini caduti incidentalmente in un burrone non fanno rumore come
l’assassinio di due partigiani. E il paese è salvo, allo stesso modo del figlio
che, ignaro, continua a disprezzare chi è stato capace d’accettare l’oltraggio
di un abbandono pur di non mettere a repentaglio ciò che ama. Quanta
complicità. Un intero paese partecipe di un segreto da custodire con
attenzione. Non è possibile rischiare che si capisca. Meglio far finta di
niente e andare avanti. Altri prenderanno il loro posto, e il paese continuerà
a proteggerli con il silenzio. Adesso comprendo di cosa parlavano fitti fitti
mio padre e Luciano, ed il perché della rosa di sangue sul suo petto. Proprio
lui il figlio del podestà. Proprio lui l’oggetto del mio odio infantile. Un
altro fantasma da ignorare. Bastardo di un paese, troppo impegnato a difendere i suoi figli e ad
abbandonare chi fugge. Maledetto paese.
L’avvocato ha finito di leggere le carte. A me rimane la casa, il resto
l’ho lasciato alla chiesa del paese. Dovrò sistemarla, farci alcuni lavori.
Potrei far venire i miei architetti, ma sarà Cesare a pensarci. Per primavera
spero di stabilirmi. Ormai i miei affari posso seguirli da qui e poi c’è mio
figlio. È tempo che cresca, affiderò a lui tutto. Quando l’ho chiamato per
dirglielo non ci credeva. È venuto apposta per sincerarsi della mia salute. Ho
scoperto che è in gamba e mi vuole bene. L’ho capito guardandolo. Ed ho notato
un’altra cosa: i suoi occhi somigliano a quelli di mio padre.
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