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I Racconti di Edoardo - Gli occhi di mio padre




Quanto tempo è passato? Secoli. Eppure le voci hanno l’intensità di allora, anche gli odori sono gli stessi, ed uguali sono le case perse tra le montagne ed il cielo pesante. Sono tornato, ma non c’è nessuno ad aspettare. Lascio la macchina poco lontano, non faranno male quattro passi a piedi tra i vicoli una volta conosciuti. Lì abitava Zipietro, un uomo dalle grandi mani e dalla parola facile, era un parente di mia madre, uno zio forse o qualcosa di simile. Il giorno in cui andai via fu l’unico ad accompagnarmi al camion che mi avrebbe portato in città. “Quando tornerai sarà diverso. Tutto.” Disse. Lo guardai senza comprendere e non pensai più a quelle parole. Si sbagliava, è tutto uguale invece, come il cane che sento abbaiare e l’umido dell’aria. Bisogna esserci cresciuto in un paese così per capire il vento tra le case ed i rumori della montagna. Tra poco pioverà. Alzo il bavero del cappotto mentre ritrovo i campi dove ho lasciato la fanciullezza. Sono coperti di nebbia, lo erano pure quel pomeriggio quando ho visto mio padre chino contro il tramonto tracciare solchi ed asciugarsi il sudore con un braccio: era minuto e curvo in un orizzonte immenso, indifeso tra giochi di luce opaca e colori accennati. Avrei voluto tirarlo via, strapparlo a questa maledetta terra, gridargli di sputare l’anima per essere almeno come il podestà Feliciello, uno che era stato anche a Roma. Non feci nulla, rimasi a guardarlo mentre un sole malaticcio e offuscato calava. Fu allora che decisi di andar via, di essere diverso da quel puntino perso nel confine tra cielo e terra. Il destino io lo avrei cercato senza aspettarlo. Ho fatto bene, ne sono convinto oggi più di ieri.
Ecco, qui stava il dottor Sanzi, il farmacista. Chissà se la figlia vi abita ancora. Maria era la più carina del paese, non ho voglia di vederla, non so se sopporterei i segni della mia vecchiaia sul suo viso. Una volta tentai di baciarla, lei rise. Si fidanzò con il figlio di Feliciello, Luciano. Un ragazzo più grande di noi con l’avvenire assicurato. Un’assicurazione chiusa bruscamente su un gelido manto di neve. Non ho mai saputo chi lo uccise e per la verità manco m’interessa. Lo vedevo spesso parlare con mio padre. Chissà cosa diavolo avessero da dirsi, o meglio cosa gli dicesse Luciano. Bah, meglio avanzare il passo, la casa di nonna Terè sta oltre la piazzetta della chiesa e voglio chiudere presto la storia dell’eredità. La casa la dessero a chi la vuole, non saprei cosa farmene. Ho un solo figlio ed ha altre cose per la testa, per il resto soltanto il pensiero di dover tornare qui mi da fastidio.

- Angiolè…Angiolè…- Cerco di capire chi sia a chiamare: ha il capo coperto e ciuffi di capelli grigi escono scomposti dallo scialle. Comincia a piovere.
- Angiolè so’ Linuccia, ‘a figlia e Rosetta -
Linuccia. La piccola Linuccia. Pensavo fosse scappata anche lei, cosa ci fa sepolta qui? Voleva studiare, ero certo di non rivederla più. Le scopro il capo, i suoi occhi sono lucenti. - Ciao piccire’- le dico a fatica. - Ciao Angiolè - risponde baciandomi la guancia. Per la miseria, sto diventando vecchio davvero, provo uno strano groppo alla gola. -Avevano detto che saresti tornato, ma non ci ho creduto, mi sembra incredibile. -
- Da quanto non ci vediamo?- chiedo cercando di ripararmi dal vento che violenta la pioggia sottile.
- Trentotto anni, Angiolè, trentott’anni e otto mesi - dice abbassando lo sguardo. Provo un certo imbarazzo al rossore che le passa sul viso. Altra gente ci viene incontro. Tra loro riconosco un uomo dai pantaloni troppo corti. Come quando giocavamo nei campi, immaginando d’essere noi a decidere le sorti della guerra. Lo abbraccio, non potrei fare altrimenti. - Come stai Cesari’? -
- ‘A vicchiariell, Angiolè. ‘A vicchiariell - Dice mentre avverto lo stesso profumo di menta che aveva addosso da ragazzo. Gli altri non li ho mai visti. Volti che nulla hanno a che fare con il mio paese. Meglio, è più facile riprendermi dall’inaspettata emozione che sta attanagliando i pensieri. Cerco di distrarmi chiedendo dove dobbiamo andare, ma le parole arrivano ovattate e confuse. Cesare dice qualcosa, non so cosa, vedo Linuccia stringersi al suo braccio. Capisco dall’intimità dei movimenti che la vita deve averli uniti. Forse è questo il motivo per cui è restata dando un calcio ai sogni di bambina. Non avrei mai pensato che Cesare…

La piazza è sempre quella, la fontana è rimasta al suo posto, come pure il bar sotto al municipio. Certo le macchine parcheggiate sono una novità, e nuove sono le tende bianco azzurre del locale che era di don Franco il barbiere. Ora c’è una gioielleria, guardo distrattamente la vetrina, orologi e monili fanno bella mostra di se. Una volta sarebbero rimasti lì ad ammuffire. Vedo qualcuno sporgersi fuori dalla porta, è un viso sconosciuto. Franco era più basso e grassottello. Ma che dico… ora avrebbe cent’anni. Un bambino con il passo di chi ha fatto tardi a scuola lancia un’occhiata distratta, forse nemmeno mi vede. Vorrei fermarlo, raccontargli che quella strada l’ho fatta anch’io, ma non credo capirebbe. Domando a Cesare quanto dista l’ufficio dell’avvocato, da un gesto della testa capisco di essere arrivati.

Sono ormai le undici. L’avvocato ha detto di dover aspettare ancora qualcuno prima di poter cominciare. La cosa non mi disturba. Chiedo a Cesare di accompagnarmi al cimitero. Non ci sono mai stato. Quando i miei morirono ero lontano. Seppi della disgrazia mesi dopo, da una lettera scritta dal dottor Sanzi nella quale, raccontando della caduta nel dirupo vicino al fiume, ci tenne a dirmi che li avevano trovati quasi abbracciati. Chissà se io fossi rimasto... Comunque poco importa, ora sono qui e devo andare, anche perché so che non ci saranno altre occasioni.

Il cancello, quello che per noi bambini era il confine dell’ardire, è lo stesso. Sorrido pensando a quando toccò a me scavalcarlo per dar prova di coraggio. Faceva caldo, eppure il sudore che scendeva sulle tempie era più freddo del ghiaccio.
Entriamo dirigendoci verso un vialetto stretto. Lo attraversiamo, gli alberi ai lati sono tetre figure. – A primavera è tutto fiorito – dice Cesare leggendo i miei pensieri. Apprezzo l’intenzione di rassicurarmi. In fin dei conti - vorrei dirgli - qui o altrove, per loro non fa alcuna differenza, ma resto in silenzio scuotendo il capo.
Le lapidi sono l’una vicina all’altra ed hanno la stessa fotografia. Chi ha voluto così è stato riguardoso. Li rivedo insieme. La foto non la conoscevo, quel modo di fissare l’orizzonte si. Mi fermo poco, il tempo di dire l’unica preghiera che ricordo, eppure quando giro le spalle sento che c’era chi aspettava quel momento da anni.

Ha smesso di piovere. L’avvocato ci informa che gli altri non verranno e occorrerà rinviare, forse di un paio di giorni. Questo manda a monte i programmi, comunque basta qualche telefonata ed è tutto a posto. Rimango.
Il tentativo di andare nell’albergo poco distante è inutile. Linuccia e Cesare si oppongono, per loro è una questione d’orgoglio. La casa è calda ed accogliente. Il figlio più grande si chiama come me, è un veterinario e tra qualche mese si sposa, naturalmente sono invitato, accetto con entusiasmo, ma so bene che non ci andrò. La seconda è una “ribelle” dice Linuccia, ma ha i suoi stessi lineamenti gentili ed il profumo del padre.
A tavola lo scarso, residuo, disagio sparisce tra un bicchiere di vino e i ricordi comuni. Cesare è stato bravo come padre e come marito. È evidente. Provo un fastidioso senso di frustrazione pensando alla mia famiglia. Cesare è stato bravo, molto più di me.
Mi accorgo adesso di non essere preparato a passare la notte fuori. - Per una volta avrai tu i calzoni corti - dice con un sorriso Cesare facendo un piccolo cenno alla moglie immediatamente corrisposto. Accompagnandomi nella camera del ragazzo, Linuccia racconta degli anni volati via insieme a Cesare. Parla dei momenti di gioia e di rabbia, delle difficoltà e dei figli. La fisso mentre rifà il letto. Ha i capelli raccolti alla nuca. È aggraziata nei movimenti. Sente il mio sguardo, alza la testa, ho l’impressione che vorrebbe dire qualcosa, poi si passa le dita tra le ciocche grigie e tace.

Sono stato fortunato, il ragazzo ha la mia stessa taglia e finalmente mi sono liberato della giacca e della cravatta. Seduti vicino al cancelletto in fondo al viale che dà sulla casa, parliamo di cose banali. Nessuno dei due ha voglia di chiedere all’altro della propria vita. Meno che mai io. Si starebbe meglio dentro, lo so, ma respirare quest’aria aiuta a sentirsi vivo. Poche figure attraversano il paese. Grida di bambini giungono dalla piazza. Tra poco tutto sarà silenzio. Ho una domanda che vorrei fare. Guardo Cesare, ha cent’anni di troppo e le mani diverse dalle mie. Se non lo chiedo adesso non lo farò più. Mi osserva, forse ha capito.- Sai dove li hanno trovati? - chiedo tutto di un fiato. - Certo - risponde per niente meravigliato - se vuoi domani ci andiamo. -  Faccio di si con la testa. Riprendiamo a guardare lontano ed a parlare di cose banali.

È difficile che mi svegli tanto presto e che dalla finestra veda questi colori. In un lampo sono a terra. Come un bambino stupito da uno spettacolo straordinario, pulisco con la mano il vetro appannato dalla notte e riscopro sorpreso la nebbia carezzare la strada, ammantarla di un chiarore latteo, avvolgerla in una misteriosa coltre di niente. Apro le imposte. È nei polmoni la differenza dal mio appartamento, bello, caldo e anonimo. Ho bisogno di un caffè, l’aroma è nell’aria.
Linuccia si è preparata prima di fare colazione. Non credo che se fosse una giornata qualunque a quest’ora sarebbe pettinata e vestita. I ragazzi la prendono benevolmente in giro, Cesare è già uscito. Scendendo le scale avverto un calore dimenticato, vorrei fermare il tempo e passare il resto della vita a guardarli, così attorno al tavolo alle sei e mezza del mattino.
Attraverso il paese ancora sonnacchioso, il rumore di un paio di auto taglia la piazza mentre entro nel bar. Non ne ho voglia, ma prendo un caffè macchiato ed un grappino.
Pian piano il locale si riempie, ognuno raggiunge inconsapevolmente il suo posto. Potrebbero bendarlo il padrone, saprebbe lo stesso dove portare, ed a chi, ogni cosa. Cesare arriva poco dopo. Ha una pesante giacca di velluto marrone ed un cappello di flanella. Saluta gli altri e mi presenta. Qualcuno conosceva mio padre, un tizio dai capelli rasati dice di ricordarsi di me. Ignoro chi sia. Scambiamo quattro chiacchiere di cortesia e poi usciamo. - Vuoi andare ora? - Non ho tentennamenti, ma il cuore batte forte.

Il viottolo è un tappeto bagnato di foglie secche dal quale fa capolino un terreno bruno, generoso e robusto. Fogliame e arbusti intricati accompagnano la nostra salita, ogni tanto un roccia dimostra la sua potenza violentando il verde torbido del paesaggio. Saliamo, devo fermarmi un paio di volte fissando la tinta del mio fiato. Non sono abituato. Senza vederlo odo lo scroscio del fiume. - È a pochi passi - avvisa Cesare, non lo rammentavo tanto turbolento. Due uccelli scuri ci tagliano la strada, sono certo che se sapessero imprecare lo avrebbero fatto volentieri. Ora le foglie diventano più rade e fosche. La montagna impone i suoi colori fatti di pietra, muschio e rigore. Gli alberi hanno le fogge misteriose volute dal vento. 
- È stato lì che li hanno trovati - dice Cesare indicando un dirupo. Sono senza parole. Siedo su quello che rimane di un tronco. Forse è la fatica, ma vedo ombrato. Sento sulla spalla la mano del mio compagno. Forse è la fatica a far scendere le lacrime.
- Ricordo quel giorno - comincia a parlare Cesare sentendone quasi il dovere - era da poco passato mezzogiorno quando Zipietro entrò in paese urlando. Non potevamo immaginare cosa fosse successo. In chiesa c’erano tutti. Probabilmente anche chi…-
Ci vuole qualche minuto per capire che la cronaca non avrà seguito. - Anche chi… cosa?- chiedo con una curiosità appena accennata. Cesare si alza e fa per tornare sui suoi passi. No, caro amico, così non vale. Lo fermo quasi con sgarbo: - Perché non continui?- domando accorgendomi del suo turbamento.
-    Angiolè è passat tantu tiemp’, so storie che nun ricord chiù nisciune. Lascia stà. -
-    Lascia stà che cosa? Cesarì, erano mamma e papà…-
-    E t’ho ricuord mo’? - risponde con un’inattesa inquietudine - Angiolè tu è cose nun e sai, nun le mai saput, che ti importa adesso?-
La rabbia cresce, insensata, irrefrenabile. Lo vorrei colpire, farlo tacere, ma non saprei mai ciò che lui sa. Devo stare calmo, adesso devo ragionare.
-    Cesare, - gli dico accendendo una sigaretta - io non potevo rimanere. Non sopportavo più d’accettare passivamente ogni cosa capitasse. Eravamo persi Cesarì lo capisci, eravamo ragazzi ed il mondo già ci sfuggiva di mano. Io ho tentato quantomeno di costruirmelo il futuro. Cosa dovevo fare? Restare qui a spaccarmi la schiena subendo l’arroganza di quello stronzo di Feliciello e del figlio? No, Cesarì, no. Papà aveva fatto la sua scelta perché avrei dovuto pagarla anch’io?-
Togliendosi il cappello si aggiusta i pochi capelli rimasti. Lo fisso: sta valutando se parlare o meno. La sua sarà una decisione definitiva. Era così fin da ragazzo. All’improvviso fa segno di sedere, prende una sigaretta dal mio pacchetto e comincia a raccontare. 

Scendiamo in silenzio. Questi luoghi ora appaiono sconosciuti e ostili. Loro sapevano. Sono stanco. Scene smarrite nel tempo assumono un aspetto diverso. Gesù. Non avevo capito niente. E mi hanno lasciato andare senza dire nulla. Cesare è avanti di qualche passo, ora sono io ad avere cent’anni di troppo. Anche mia madre allora, l’unica a cui confidavo ogni segreto ha taciuto. Sempre. Arriviamo in paese ed è come se avessi tutti gli sguardi addosso. Quanti di loro sanno. Vorrei bere qualcosa, ma non mi va di entrare nel bar. Imbocco il vialetto della casa di Cesare. Linuccia è lì a parlare con la figlia. Le passo davanti ad occhi bassi. Sono sicuro che Cesare le avrà fatto un segno. Mi lascia stare. Il caldo della stanza è opprimente. Apro la finestra, scorgo la casa dove abitavo. Rimetto il cappotto e vado. Il cortile è piccolo, lo ricordavo immenso. Si odono voci. Mi pare di riconoscere quella di mia madre. Il freddo comincia a mordere le gambe. Torno a casa mentre inizia a piovere. Devo telefonare all’avvocato. Devo telefonare…

A tavola l’atmosfera è pesante. Cesare avrà raccontato a Linuccia cosa è successo. Le avrà detto della mia reazione stupida e incontrollata. La ragazza è chiusa in se stessa. C’è rispetto in quel silenzio. Il rumore dei bicchieri e delle posate copre il respiro della casa. Tocca a me. Sono io a dover parlare. Lo farò, dopo lo farò…
-    Perché nessuno ha mai fatto in modo di farmelo sapere? - chiedo a Cesare che sta fumando. Linuccia è intenta a lavare i piatti, chiude la fontana e, asciugandosi con un panno colorato, siede vicino a noi, poggia la mano su una gamba del marito: - Cosa sarebbe cambiato? Fu Zipietro a decidere. Io c’ero quando lo stabilirono, ero nascosta dietro la porta perciò venni a sapere cos’era veramente successo. Ricordo che la lettera fu scritta dal dottor Sanzi in questa stanza. Zipietro dettava le parole pensandole con calma. Che senso avrebbe avuto allora dirti la verità? –
-    Poi il tempo passa – continua Cesare – e ci si chiede se è giusto riportare in vita un dolore ormai rassegnato. Tu sei partito ragazzo e non so per quanto tempo lo sei stato. Qui abbiamo dovuto crescere in fretta. Troppo. Il silenzio ha il suo prezzo. Perché farlo pagare pure a te?–
Già, a che scopo distogliere il conquistatore della terra dalle sue battaglie rivelandogli che il padre e la madre sono stati uccisi perché combattenti senza divisa di una guerra fatta di dignità e coraggio. Dei poveri contadini caduti incidentalmente in un burrone non fanno rumore come l’assassinio di due partigiani. E il paese è salvo, allo stesso modo del figlio che, ignaro, continua a disprezzare chi è stato capace d’accettare l’oltraggio di un abbandono pur di non mettere a repentaglio ciò che ama. Quanta complicità. Un intero paese partecipe di un segreto da custodire con attenzione. Non è possibile rischiare che si capisca. Meglio far finta di niente e andare avanti. Altri prenderanno il loro posto, e il paese continuerà a proteggerli con il silenzio. Adesso comprendo di cosa parlavano fitti fitti mio padre e Luciano, ed il perché della rosa di sangue sul suo petto. Proprio lui il figlio del podestà. Proprio lui l’oggetto del mio odio infantile. Un altro fantasma da ignorare. Bastardo di un paese, troppo  impegnato a difendere i suoi figli e ad abbandonare chi fugge. Maledetto paese.

L’avvocato ha finito di leggere le carte. A me rimane la casa, il resto l’ho lasciato alla chiesa del paese. Dovrò sistemarla, farci alcuni lavori. Potrei far venire i miei architetti, ma sarà Cesare a pensarci. Per primavera spero di stabilirmi. Ormai i miei affari posso seguirli da qui e poi c’è mio figlio. È tempo che cresca, affiderò a lui tutto. Quando l’ho chiamato per dirglielo non ci credeva. È venuto apposta per sincerarsi della mia salute. Ho scoperto che è in gamba e mi vuole bene. L’ho capito guardandolo. Ed ho notato un’altra cosa: i suoi occhi somigliano a quelli di mio padre.

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