La
pianura è grande, è bello guardare sin dove arriva l’occhio. Ci sono nuvole
lontane, troppo per preoccuparsi. Lancio un piccolo ramo verso il cielo, vola
alto quasi come il mio aquilone. Ecco… il rumore, finalmente. Persino il vento
scappa via, quando lui arriva. Nessuno può fermarlo: ha la forza di un animale
selvaggio e la sua pelle di ferro sfida ogni ostacolo. Saluto la gente
affacciata ai finestrini. E lui va, lasciando al suo passaggio un misterioso
senso di vuoto. Una volta mio padre mi ha portato alla stazione del paese
vicino e l’ho visto che ancora sbuffava. “Un giorno sarò io a portarlo” gli ho
detto e papà ha sorriso...
Il ramo
è ancora tra le mie mani, c’è un piccolo fiore sul pezzo di legno, un bocciolo
color dell’alba.
Non ci
feci caso quando lo gettai alle mie spalle.
Allora abitavo vicino al fiume nella casa del pozzo azzurro. Veniva
gente da ogni parte a vedere lo scherzo del cielo nelle sere di luna piena,
allorché il fondo del pozzo lentamente si dipingeva di una delicata tinta
turchina. Mia nonna era convinta che quello fosse un segno, un presagio di cui
temere e non volle mai bere di quell’acqua nei giorni che seguivano le notti
fatate. Noi sorridevamo della sua paura, ma nessuno ebbe da ridire quando chiamò
il prete a benedire il pozzo. La nonna aveva troppi anni per accettare il
futuro e pochi per arrendersi alla vita. Con la voce da bambina e il mestolo
della polenta a mo’ di scettro regnò su tutti noi sino all’ultimo respiro
dettando le regole eterne della famiglia. Le parlai dei miei sogni in un
pomeriggio d’ottobre. Mi carezzò i capelli con una dolcezza che arrivò dentro
l’anima e che ancora avverto. Se n’andò di notte, senza chiasso, con la luna
piena ed il pozzo avvolto in un manto turchese. Lei non poté vederlo come non
vide la guerra che cominciava a lasciare i primi maledetti segni dei suoi
morsi.
Mio padre fu chiamato soldato in una mattina di primavera. Il postino
venne con una cartolina uguale per tutti nel paese, era scritta con una bella grafia
di donna dalle lettere grandi ed aggraziate. Gli occhi di mamma si bagnarono
quando la lesse ed io conobbi per la prima volta l’angoscia della disperazione.
Papà partì l’ultimo sabato del mese di maggio, furono in molti quel
giorno ad andare portandosi dietro lo sguardo malinconico di chi rimaneva.
Tutto il paese accompagnò i suoi figli alla stazione vicina. Papà salì sulla
carrozza con il numero ventisei scritto in rosso, per un attimo ebbi la
certezza che nulla gli sarebbe successo. Era sul treno e questo bastava per
proteggerlo, il mio sogno non avrebbe potuto tradirmi così. Poggiai la testa
sul fianco di mamma mentre uno sbuffo di fumo allontanava le mille mani protese
che chiedevano di non dimenticare.
Zia Petra venne a stare con noi poco dopo. Fu un bene perché in quei
giorni mamma aveva detto sì e no dieci parole e spesso la sentivo piangere in
silenzio. La sua venuta coincise con la luna piena e lei rimase tutta la notte
a fissare il fondo del pozzo con addosso uno scialle di lana dagli orli
consumati. Al mattino presto rincasò canticchiando. “Queste cose dimostrano che
Dio esiste” disse preparando la colazione e donandoci una tranquillità che
pensavo persa. Sentirla cantare era un piacere. Aveva una voce armoniosa e
gentile, un sorriso sincero ed una bellezza delicata. I capelli erano una
cascata di fili di carbone che, quando scioglieva le coprivano le spalle. Era
di qualche anno più grande di mia madre eppure ne dimostrava dieci in meno e
non solo per il corpo esile e nervoso. Spesso riuniva tutti i bambini del
vicinato in cortile insegnandoci passi di danza e filastrocche dalle storie
magiche ed inverosimili. Anche nei momenti di maggior tristezza Petra aveva una
trovata, un’idea per scacciare la malinconia e far tornare il sereno nei cuori.
Quando si rese conto delle mie fughe verso la pianura non disse nulla. Un
pomeriggio arrivò silenziosa, mi sedette accanto e rimase ad aspettare il treno
passare. “Con quello tornerà papà” dissi senza voltarmi. La sua mano scivolò
sulla mia. Fu il nostro momento più intimo. Altre volte ci trovammo seduti sul
prato vicino al ciliegio a seguire la scia del treno allontanarsi. Eravamo lì
anche il giorno in cui non passò. Ci trattenemmo per ore al punto che, quando
tornammo mia madre fece la più grande scenata che io ricordi. Investì la
sorella in maniera tanto violenta da indurla a fare le valigie con la fermezza
di chi ha deciso. Mi accorsi dell’amarezza di zia Petra e le andai vicino
cercando di confortarla per quello che sapevo essere una mia colpa, si girò
strizzando l’occhio “ci torneremo domani” disse e cominciò a disfare i bagagli
con la determinazione di chi non si dà per vinto.
Il treno non passò per molto tempo, e per
molto tempo non avemmo notizie di mio padre. In quei giorni capitava spesso che
giungessero soldati dalla pianura. Si fermavano il tempo necessario a mangiare
e poi riprendevano il viaggio verso la collina. Avevano stivali sporchi e facce
stanche. Non pensai mai che tra quei volti ci potesse essere papà. Quando li
vedevamo arrivare il paese si preparava, le donne cucinavano e i vecchi
s’attrezzavano per sapere quanto c’era da sapere. Erano accolti come fratelli e
figli e come fratelli e figli si comportavano.
Poi le
divise cambiarono e tutto fu diverso. Il paese si chiuse in se stesso e quando
il sole calava le donne non uscivano. Però il treno riprese le sue corse, ma al
posto delle persone che salutavo c’erano uomini armati e carrozze chiuse ed il
suo andare era più triste.
L’estate volò via tra il parlare strano di “quelli”, la paura che
scuoteva il paese sin nelle viscere e il vociare basso e complice dei vecchi.
Quando li sentivo soffiare tra le labbra per chiamarsi andavo verso di loro con
l’aria innocente dei miei anni e la malizia di chi sa di un segreto da svelare.
Non riuscii a capire nulla se non che zia Petra sapesse più di me. Lo compresi
un pomeriggio al forno di Lorenzo, quando lui stesso disse ad un tipo dalle
mani robuste e callose di raccontare a Petra ciò che aveva veduto. A casa lei
non c’era e nemmeno la bicicletta. L’attesi seduto sul bordo del pozzo, era
quasi sera quando la vidi arrivare affannandosi sulla salita di casa. Ero certo
fosse preoccupata per quello che le avrebbe detto mia madre che già da un po’
sentivo borbottare. Sorrise passandomi davanti, non ebbi neanche il tempo di
parlare che le due sorelle si strinsero forte come se non si vedessero da anni.
Rimasi sorpreso ed alzai lo sguardo. C’era la luna piena.
L’inverno apparve d’improvviso un pomeriggio e la neve coprì ogni cosa.
Avevo le scarpe strette ed una giacca di lanetta troppo piccola per le mie
spalle. Finalmente ero riuscito a trovare il coraggio di avvicinarmi ai binari.
Ora il treno sarebbe passato a poca distanza, ne avrei visto il profilo e
respirato la forza. Forse, chissà, ci sarebbe stata una carrozza con un numero
ventisei stampato in rosso e ne sarebbe sceso mio padre. Da lontano vidi la
sagoma pesante e scura avvicinarsi. La speranza mi attraversò gli occhi con la
sua stupida emozione bagnata mentre il treno andava veloce davanti al mio naso.
Ebbi la tentazione di toccarlo e se non lo feci fu solo perché m’accorsi di una
scritta sul fianco di un vagone. Riuscii a malapena a leggere alcune lettere,
di certo non c’erano numeri in rosso e mentre s’allontanava per un attimo lo
odiai.
Tornando
a casa cercai di ricordare le lettere viste. Non riuscivo a darle un senso.
Forse era il nome del treno e l’idea di scoprirlo mi parve esaltante tanto da
ripromettermi di farlo. Strinsi la sciarpa in gola e presi a correre, ero io il
treno che andava verso l’ignoto.
Del mio proposito non parlai a nessuno,
ma passai più di una notte ad immaginare quale fosse quel nome. Furono le notti
in cui volli rimanere bambino e credere ad ogni illusione, le notti che
precedettero la scoperta dell’uomo tra la neve.
Il giorno cominciò con un sole timido che
fece fatica a vincere il buio rimanendo nascosto dietro pesanti nuvole di
ghiaccio. Zia Petra, come sempre, preparava la colazione. Lei non si stancò mai
d’ordinare la tavola con una tale cura che, per chi non sapeva del surrogato
d’orzo e delle pagnotte dure di segale nera, sarebbe stato lecito pensare ad un
banchetto ricco e soddisfacente. Lo faceva con la sua innata allegria al punto
che anche mia madre, di natura più realista del re, ne fu presto contagiata. Dopo
colazione le due donne erano solite dedicarsi alla casa, io invece pensavo ai
pochi animali che ancora sopravvivevano alla nostra fame ed a quella dei
soldati. Anche quel giorno fu così ed il pomeriggio arrivò veloce. La neve
aveva ripreso a cancellare i colori del mondo, ma ci badai appena preso com’ero
a correr via, nella pianura, verso i binari, alla scoperta del nome misterioso.
Fermo a poca distanza dalle rotaie
guardavo i fiocchi di neve rincorrersi nel vento. Erano tanti e l’orizzonte
appena si scorgeva nel velo bianco che s’agitava scomposto davanti ai miei
occhi, solo la collina si ergeva distinta là dove c’era il confine. Chissà se
dall’altro lato il tempo era lo stesso o se per caso non fosse una splendida
giornata senza guerra. Il treno confuse i pensieri con il suo ruggito. Toccai
il binario e avverti il fremito del passaggio. Lui arrivò senza badare alla
neve, al vento ed a me. Mi concentrai sui vagoni: adesso ci sarei riuscito. Ne
avrei saputo il nome. Il vuoto tra le carrozze permetteva per un secondo di
guardare oltre. Erano sprazzi irritanti di luce in un muro in movimento, in uno
di questi intravidi qualcosa cadere. Maledissi la distrazione di un attimo. Il
treno era schizzato via incurante della mia curiosità lasciandomi deluso ed irritato
con gli occhi oltre i binari. Per colpa di uno stupido sacco avevo perso
l’occasione di sapere. Tirai un calcio nel terreno ed alzando lo sguardo lo
scorsi, abbandonato nel deserto della pianura mentre la neve cominciava a
coprirlo senza rispetto. Fu l’istante prima di rimanere immobile senza fiato:
non era un sacco, a meno che i sacchi non avessero braccia e gambe.
Respirava a fatica. Per fortuna non era papà.
Aveva il volto magro e i capelli scomposti. Mentre gli toglievo la neve dalla
faccia mi fissò con un’espressione amara. Gli chiesi dove avesse male. Strinse
gli occhi. “Dove ti fa male?” ripetei alzando un po’ la voce. Scosse la testa e
disse qualcosa d’incomprensibile. Parlava un’altra lingua. Non sapevo che fare,
stavo per andare a chiamare qualcuno quando con un movimento rapido strinse il
mio polso. Ebbi paura. Lui capì e fece segno di stare calmo. Rivolse lo sguardo
in direzione della collina, il treno era scomparso. Stava riprendendo colore ed
il respiro si faceva più tranquillo al contrario del mio. Sedette poggiando una
mano sul collo. Aveva un cappotto nero stracciato su una manica ed una camicia
bianca con i segni del tempo sui bordi. Lasciò il polso e tese la mano: “Primo”
disse tossendo e volgendosi ancora verso la collina. Con cautela gli porsi la
mia, lui la strinse proprio mentre una lacrima gli scendeva lenta sulla
guancia. “Primo” ripeté battendosi leggermente il petto. “Alfio” risposi. Mosse
la testa soddisfatto: “Grazie Alfio, grazie” disse con una buffa pronuncia.
Sorrisi. La neve aveva smesso di cadere.
Si alzò con difficoltà, era alto come
papà. Piccole strisce di tela gialla a forma di stella erano cucite in malo
modo sul bavero della giacca. Forse s’accorse della mia occhiata curiosa e con
rabbia prese a strappar via i nastri di tela. Pulì per bene il bavero
dall’ultimo filo di cotone e poi si chinò verso di me: “Dove è qui?” chiese
stringendosi nel paltò. Tremava e stava in piedi a malapena. Avrei voluto
essere a casa con mamma e zia Petra. L’aiutai a sedersi di nuovo. “Vuoi venire
con me?” dissi parlando piano. Non sono sicuro che comprese, ma fece di no con
la testa. La barba lunga di giorni e le occhiaie nere e profonde lo
invecchiavano, era più giovane di quanto sembrava. Aveva un grosso livido sul
mento ed una sottile striscia di sangue secco segnava la ruga attorno alla
bocca. Per lui la guerra doveva essere molto più brutta della nostra. Pensai a
mio padre mentre il vento della pianura alzava lieve un pulviscolo di gelo e la
neve sembrava voler tornare in cielo. Non potevamo rimanere a lungo seduti nel
freddo, avessi potuto avrei fermato il treno per farlo salire di nuovo. Chissà
dov’era diretto, magari c’era qualcuno ad aspettarlo. Dio, non sapevo cosa fare
e neanche come convincerlo a muoversi. Poi ebbi un’idea. Per ripararsi avrebbe
potuto sistemarsi in quella che chiamavamo la caverna dell’orso, sebbene un
orso da quelle parti manco sapevamo com’era fatto. Gli feci segno di seguirmi.
Lui per un po’ rimase seduto, poi cautamente cedette ai miei gesti d’invito e
zoppicando prese a venirmi dietro. Adesso i piedi affondavano nella neve con la
facilità di una lama nel grasso d’animale.
Raggiungere la caverna fu una sofferenza:
almeno dieci volte ero tornato sui miei passi per indurlo a proseguire. Davanti
alla grotta ebbe un attimo di perplessità, ma un soffio di vento gelido lo
convinse ad entrare senza altri tentennamenti. Ebbi la sensazione che ormai
avrebbe fatto ogni cosa avessi voluto. Si sistemò nel lato più protetto e con
la sua voce da bambino cresciuto implorò: “Tu non dire di me. Ti prego, non
dire.” Lo guardai nella penombra della tana, avevo cent’anni più di lui.
Arrivai a casa che era buio. Zia Petra
fece segno di prepararmi alla sfuriata di mamma, ma questa non ci fu. Si limitò
a non rivolgermi la parola. Avrei voluto raccontarle di Primo, farle capire il
perché del ritardo, ma avevo promesso di stare zitto e mantenni il segreto.
Al mattino la neve luccicava al sole che scioglieva la brina sui rami.
Avevo messo nel sacco un pezzo di pane e, in un fiasco, metà della mia tazza
d’orzo. Con una certa abilità ero anche riuscito a rubare una mela e tre o
quattro fiammiferi. Lo trovai più spossato che mai, raggomitolato nel cappotto
e tremante di febbre. Mangiò il pane e bevve dal fiasco. La mela invece la mise
in tasca. “Io andare via” disse. Ma era troppo stanco per crederci davvero.
Presi dell’erba secca trovata nella caverna e feci per accendere un fuoco. Lui
mi fermò. Solo allora compresi appieno la sua paura.
Tornai a casa per pranzo. Fino a quel
momento ero stato impegnato con Primo a cercare un modo per comunicare. Non
trovammo nulla di meglio che l’antico linguaggio dei gesti e dei segni sulla
terra bruna della caverna. Le poche parole che sapeva bastarono però a
convincermi del suo terrore per il treno e i soldati. Dal treno era scappato ed
oltre ai vestiti non aveva nulla con se a parte un piccolo libro dalla
copertina scura. Ad un certo punto tracciò sul terreno la stessa stella che
avevo visto sulla giacca. La indicò fissandomi. Io non avevo idea di cosa
volesse dire e me lo stavo ancora chiedendo quando arrivato a casa sentii le
voci di mamma e zia Petra. Corsi dentro ad abbracciarle.
Del pranzo riuscii a trafugare una fetta
di pane cosparsa con un po’, ma proprio poco, di polenta. Mia madre intanto si
chiedeva scuotendo la testa che fine avesse fatto la mela nel cestino. Credo
che arrossii senza accorgermi di zia Petra intenta a seguire ogni mio
movimento. Un gruppo di soldati, di “quelli”, passavano marciando davanti casa.
Era di loro che Primo temeva.
Il treno andava più lento del solito,
pareva facesse fatica ad attraversare la pianura tante volte attraversata.
Primo fermò il respiro e strinse le spalle alla parete. Lo stesso feci anch’io
senza saperne il motivo. “Perché hai paura?” chiesi a voce bassa. I suoi occhi
s’illuminarono di terrore, rimasi perplesso, non mi ero accorto di zia Petra
alle mie spalle.
Lo portammo a casa di notte. Mamma aveva
preparato in solaio un piccolo giaciglio di paglia con accanto una brocca
d’acqua e mezza pagnotta. Attraversare il boschetto che portava alla piana mica
fu un’impresa da niente. Zia Petra lo teneva per un braccio ed ogni volta che
veniva meno lei lo sospingeva con una forza tale da spostare anche me
dall’altro lato. Respiravamo appena, ma il sudore scendeva dalle tempie come in
una calda giornata d’estate. Per molti anni l’odore di quella notte mi
perseguitò nei sonni agitati di adulto. Mamma aspettava con la porta aperta.
Non entrammo nemmeno che la barricò col chiavistello ed una sedia pigiata contro.
Le scale che portavano al solaio furono fatte in silenzio con Primo più
tramortito che lucido. Lo adagiammo sul giaciglio coprendolo con la coperta di
zia Petra. Scendemmo che avevamo perso cento chili e dieci anni di vita. “E
mò?” chiese mamma stringendomi al suo fianco. Zia Petra guardava fuori dalla
finestra, la luna non c’era. Avesse potuto vedere si sarebbe resa conto del
pozzo ammantato di un turchino intenso…
Di quella casa non è rimasto niente. Il
tempo ha cancellato persino i binari. Eppure ho fatto in tempo a condurre il
mio treno in mezzo alla pianura. Passando vicino alla caverna dell’orso
lanciavo con la motrice un lungo fischio a ricordo di quei giorni.
Papà tornò una sera d’estate. Aveva un braccio malconcio che rimase così
per il resto dei suoi giorni, ma fu il più bel regalo che la vita potesse
farmi. Mamma lo salutò con una carezza, poi scoppiando a piangere gli sussurrò
il suo amore.
Zia Petra partì poco dopo. Mi dissero che aveva raggiunto i suoi
compagni sulla montagna. Non la vidi più, ma il suo nome entrò nelle leggende
del posto ed il canto nel vento delle cime.
Primo rimase con noi molte settimane nelle quali imparò la nostra
lingua, a mangiare polenta ed a volerci bene. Gli chiesi se conoscesse il nome
del treno. Lo ignorava, ma ne sapeva la destinazione. Quando stava per andare
mi strinse qualcosa in un palmo. “Non dimenticare piccolo amico - disse - non
dimenticare mai”.
Stava già perdendosi nell’orizzonte quando aprii la mano. C’era una
piccola striscia di tela colorata di giallo.
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