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I Racconti di Edoardo - La casa del pozzo azzurro


La pianura è grande, è bello guardare sin dove arriva l’occhio. Ci sono nuvole lontane, troppo per preoccuparsi. Lancio un piccolo ramo verso il cielo, vola alto quasi come il mio aquilone. Ecco… il rumore, finalmente. Persino il vento scappa via, quando lui arriva. Nessuno può fermarlo: ha la forza di un animale selvaggio e la sua pelle di ferro sfida ogni ostacolo. Saluto la gente affacciata ai finestrini. E lui va, lasciando al suo passaggio un misterioso senso di vuoto. Una volta mio padre mi ha portato alla stazione del paese vicino e l’ho visto che ancora sbuffava. “Un giorno sarò io a portarlo” gli ho detto e papà ha sorriso...
Il ramo è ancora tra le mie mani, c’è un piccolo fiore sul pezzo di legno, un bocciolo color dell’alba.
Non ci feci caso quando lo gettai alle mie spalle.
      
Allora abitavo vicino al fiume nella casa del pozzo azzurro. Veniva gente da ogni parte a vedere lo scherzo del cielo nelle sere di luna piena, allorché il fondo del pozzo lentamente si dipingeva di una delicata tinta turchina. Mia nonna era convinta che quello fosse un segno, un presagio di cui temere e non volle mai bere di quell’acqua nei giorni che seguivano le notti fatate. Noi sorridevamo della sua paura, ma nessuno ebbe da ridire quando chiamò il prete a benedire il pozzo. La nonna aveva troppi anni per accettare il futuro e pochi per arrendersi alla vita. Con la voce da bambina e il mestolo della polenta a mo’ di scettro regnò su tutti noi sino all’ultimo respiro dettando le regole eterne della famiglia. Le parlai dei miei sogni in un pomeriggio d’ottobre. Mi carezzò i capelli con una dolcezza che arrivò dentro l’anima e che ancora avverto. Se n’andò di notte, senza chiasso, con la luna piena ed il pozzo avvolto in un manto turchese. Lei non poté vederlo come non vide la guerra che cominciava a lasciare i primi maledetti segni dei suoi morsi.

Mio padre fu chiamato soldato in una mattina di primavera. Il postino venne con una cartolina uguale per tutti nel paese, era scritta con una bella grafia di donna dalle lettere grandi ed aggraziate. Gli occhi di mamma si bagnarono quando la lesse ed io conobbi per la prima volta l’angoscia della disperazione.
Papà partì l’ultimo sabato del mese di maggio, furono in molti quel giorno ad andare portandosi dietro lo sguardo malinconico di chi rimaneva. Tutto il paese accompagnò i suoi figli alla stazione vicina. Papà salì sulla carrozza con il numero ventisei scritto in rosso, per un attimo ebbi la certezza che nulla gli sarebbe successo. Era sul treno e questo bastava per proteggerlo, il mio sogno non avrebbe potuto tradirmi così. Poggiai la testa sul fianco di mamma mentre uno sbuffo di fumo allontanava le mille mani protese che chiedevano di non dimenticare.

Zia Petra venne a stare con noi poco dopo. Fu un bene perché in quei giorni mamma aveva detto sì e no dieci parole e spesso la sentivo piangere in silenzio. La sua venuta coincise con la luna piena e lei rimase tutta la notte a fissare il fondo del pozzo con addosso uno scialle di lana dagli orli consumati. Al mattino presto rincasò canticchiando. “Queste cose dimostrano che Dio esiste” disse preparando la colazione e donandoci una tranquillità che pensavo persa. Sentirla cantare era un piacere. Aveva una voce armoniosa e gentile, un sorriso sincero ed una bellezza delicata. I capelli erano una cascata di fili di carbone che, quando scioglieva le coprivano le spalle. Era di qualche anno più grande di mia madre eppure ne dimostrava dieci in meno e non solo per il corpo esile e nervoso. Spesso riuniva tutti i bambini del vicinato in cortile insegnandoci passi di danza e filastrocche dalle storie magiche ed inverosimili. Anche nei momenti di maggior tristezza Petra aveva una trovata, un’idea per scacciare la malinconia e far tornare il sereno nei cuori. Quando si rese conto delle mie fughe verso la pianura non disse nulla. Un pomeriggio arrivò silenziosa, mi sedette accanto e rimase ad aspettare il treno passare. “Con quello tornerà papà” dissi senza voltarmi. La sua mano scivolò sulla mia. Fu il nostro momento più intimo. Altre volte ci trovammo seduti sul prato vicino al ciliegio a seguire la scia del treno allontanarsi. Eravamo lì anche il giorno in cui non passò. Ci trattenemmo per ore al punto che, quando tornammo mia madre fece la più grande scenata che io ricordi. Investì la sorella in maniera tanto violenta da indurla a fare le valigie con la fermezza di chi ha deciso. Mi accorsi dell’amarezza di zia Petra e le andai vicino cercando di confortarla per quello che sapevo essere una mia colpa, si girò strizzando l’occhio “ci torneremo domani” disse e cominciò a disfare i bagagli con la determinazione di chi non si dà per vinto.
      
       Il treno non passò per molto tempo, e per molto tempo non avemmo notizie di mio padre. In quei giorni capitava spesso che giungessero soldati dalla pianura. Si fermavano il tempo necessario a mangiare e poi riprendevano il viaggio verso la collina. Avevano stivali sporchi e facce stanche. Non pensai mai che tra quei volti ci potesse essere papà. Quando li vedevamo arrivare il paese si preparava, le donne cucinavano e i vecchi s’attrezzavano per sapere quanto c’era da sapere. Erano accolti come fratelli e figli e come fratelli e figli si comportavano.
Poi le divise cambiarono e tutto fu diverso. Il paese si chiuse in se stesso e quando il sole calava le donne non uscivano. Però il treno riprese le sue corse, ma al posto delle persone che salutavo c’erano uomini armati e carrozze chiuse ed il suo andare era più triste.

L’estate volò via tra il parlare strano di “quelli”, la paura che scuoteva il paese sin nelle viscere e il vociare basso e complice dei vecchi. Quando li sentivo soffiare tra le labbra per chiamarsi andavo verso di loro con l’aria innocente dei miei anni e la malizia di chi sa di un segreto da svelare. Non riuscii a capire nulla se non che zia Petra sapesse più di me. Lo compresi un pomeriggio al forno di Lorenzo, quando lui stesso disse ad un tipo dalle mani robuste e callose di raccontare a Petra ciò che aveva veduto. A casa lei non c’era e nemmeno la bicicletta. L’attesi seduto sul bordo del pozzo, era quasi sera quando la vidi arrivare affannandosi sulla salita di casa. Ero certo fosse preoccupata per quello che le avrebbe detto mia madre che già da un po’ sentivo borbottare. Sorrise passandomi davanti, non ebbi neanche il tempo di parlare che le due sorelle si strinsero forte come se non si vedessero da anni. Rimasi sorpreso ed alzai lo sguardo. C’era la luna piena.
      
L’inverno apparve d’improvviso un pomeriggio e la neve coprì ogni cosa. Avevo le scarpe strette ed una giacca di lanetta troppo piccola per le mie spalle. Finalmente ero riuscito a trovare il coraggio di avvicinarmi ai binari. Ora il treno sarebbe passato a poca distanza, ne avrei visto il profilo e respirato la forza. Forse, chissà, ci sarebbe stata una carrozza con un numero ventisei stampato in rosso e ne sarebbe sceso mio padre. Da lontano vidi la sagoma pesante e scura avvicinarsi. La speranza mi attraversò gli occhi con la sua stupida emozione bagnata mentre il treno andava veloce davanti al mio naso. Ebbi la tentazione di toccarlo e se non lo feci fu solo perché m’accorsi di una scritta sul fianco di un vagone. Riuscii a malapena a leggere alcune lettere, di certo non c’erano numeri in rosso e mentre s’allontanava per un attimo lo odiai.
Tornando a casa cercai di ricordare le lettere viste. Non riuscivo a darle un senso. Forse era il nome del treno e l’idea di scoprirlo mi parve esaltante tanto da ripromettermi di farlo. Strinsi la sciarpa in gola e presi a correre, ero io il treno che andava verso l’ignoto.
       Del mio proposito non parlai a nessuno, ma passai più di una notte ad immaginare quale fosse quel nome. Furono le notti in cui volli rimanere bambino e credere ad ogni illusione, le notti che precedettero la scoperta dell’uomo tra la neve.

       Il giorno cominciò con un sole timido che fece fatica a vincere il buio rimanendo nascosto dietro pesanti nuvole di ghiaccio. Zia Petra, come sempre, preparava la colazione. Lei non si stancò mai d’ordinare la tavola con una tale cura che, per chi non sapeva del surrogato d’orzo e delle pagnotte dure di segale nera, sarebbe stato lecito pensare ad un banchetto ricco e soddisfacente. Lo faceva con la sua innata allegria al punto che anche mia madre, di natura più realista del re, ne fu presto contagiata. Dopo colazione le due donne erano solite dedicarsi alla casa, io invece pensavo ai pochi animali che ancora sopravvivevano alla nostra fame ed a quella dei soldati. Anche quel giorno fu così ed il pomeriggio arrivò veloce. La neve aveva ripreso a cancellare i colori del mondo, ma ci badai appena preso com’ero a correr via, nella pianura, verso i binari, alla scoperta del nome misterioso.

       Fermo a poca distanza dalle rotaie guardavo i fiocchi di neve rincorrersi nel vento. Erano tanti e l’orizzonte appena si scorgeva nel velo bianco che s’agitava scomposto davanti ai miei occhi, solo la collina si ergeva distinta là dove c’era il confine. Chissà se dall’altro lato il tempo era lo stesso o se per caso non fosse una splendida giornata senza guerra. Il treno confuse i pensieri con il suo ruggito. Toccai il binario e avverti il fremito del passaggio. Lui arrivò senza badare alla neve, al vento ed a me. Mi concentrai sui vagoni: adesso ci sarei riuscito. Ne avrei saputo il nome. Il vuoto tra le carrozze permetteva per un secondo di guardare oltre. Erano sprazzi irritanti di luce in un muro in movimento, in uno di questi intravidi qualcosa cadere. Maledissi la distrazione di un attimo. Il treno era schizzato via incurante della mia curiosità lasciandomi deluso ed irritato con gli occhi oltre i binari. Per colpa di uno stupido sacco avevo perso l’occasione di sapere. Tirai un calcio nel terreno ed alzando lo sguardo lo scorsi, abbandonato nel deserto della pianura mentre la neve cominciava a coprirlo senza rispetto. Fu l’istante prima di rimanere immobile senza fiato: non era un sacco, a meno che i sacchi non avessero braccia e gambe.
        Respirava a fatica. Per fortuna non era papà. Aveva il volto magro e i capelli scomposti. Mentre gli toglievo la neve dalla faccia mi fissò con un’espressione amara. Gli chiesi dove avesse male. Strinse gli occhi. “Dove ti fa male?” ripetei alzando un po’ la voce. Scosse la testa e disse qualcosa d’incomprensibile. Parlava un’altra lingua. Non sapevo che fare, stavo per andare a chiamare qualcuno quando con un movimento rapido strinse il mio polso. Ebbi paura. Lui capì e fece segno di stare calmo. Rivolse lo sguardo in direzione della collina, il treno era scomparso. Stava riprendendo colore ed il respiro si faceva più tranquillo al contrario del mio. Sedette poggiando una mano sul collo. Aveva un cappotto nero stracciato su una manica ed una camicia bianca con i segni del tempo sui bordi. Lasciò il polso e tese la mano: “Primo” disse tossendo e volgendosi ancora verso la collina. Con cautela gli porsi la mia, lui la strinse proprio mentre una lacrima gli scendeva lenta sulla guancia. “Primo” ripeté battendosi leggermente il petto. “Alfio” risposi. Mosse la testa soddisfatto: “Grazie Alfio, grazie” disse con una buffa pronuncia. Sorrisi. La neve aveva smesso di cadere.
       Si alzò con difficoltà, era alto come papà. Piccole strisce di tela gialla a forma di stella erano cucite in malo modo sul bavero della giacca. Forse s’accorse della mia occhiata curiosa e con rabbia prese a strappar via i nastri di tela. Pulì per bene il bavero dall’ultimo filo di cotone e poi si chinò verso di me: “Dove è qui?” chiese stringendosi nel paltò. Tremava e stava in piedi a malapena. Avrei voluto essere a casa con mamma e zia Petra. L’aiutai a sedersi di nuovo. “Vuoi venire con me?” dissi parlando piano. Non sono sicuro che comprese, ma fece di no con la testa. La barba lunga di giorni e le occhiaie nere e profonde lo invecchiavano, era più giovane di quanto sembrava. Aveva un grosso livido sul mento ed una sottile striscia di sangue secco segnava la ruga attorno alla bocca. Per lui la guerra doveva essere molto più brutta della nostra. Pensai a mio padre mentre il vento della pianura alzava lieve un pulviscolo di gelo e la neve sembrava voler tornare in cielo. Non potevamo rimanere a lungo seduti nel freddo, avessi potuto avrei fermato il treno per farlo salire di nuovo. Chissà dov’era diretto, magari c’era qualcuno ad aspettarlo. Dio, non sapevo cosa fare e neanche come convincerlo a muoversi. Poi ebbi un’idea. Per ripararsi avrebbe potuto sistemarsi in quella che chiamavamo la caverna dell’orso, sebbene un orso da quelle parti manco sapevamo com’era fatto. Gli feci segno di seguirmi. Lui per un po’ rimase seduto, poi cautamente cedette ai miei gesti d’invito e zoppicando prese a venirmi dietro. Adesso i piedi affondavano nella neve con la facilità di una lama nel grasso d’animale.
       Raggiungere la caverna fu una sofferenza: almeno dieci volte ero tornato sui miei passi per indurlo a proseguire. Davanti alla grotta ebbe un attimo di perplessità, ma un soffio di vento gelido lo convinse ad entrare senza altri tentennamenti. Ebbi la sensazione che ormai avrebbe fatto ogni cosa avessi voluto. Si sistemò nel lato più protetto e con la sua voce da bambino cresciuto implorò: “Tu non dire di me. Ti prego, non dire.” Lo guardai nella penombra della tana, avevo cent’anni più di lui.
       Arrivai a casa che era buio. Zia Petra fece segno di prepararmi alla sfuriata di mamma, ma questa non ci fu. Si limitò a non rivolgermi la parola. Avrei voluto raccontarle di Primo, farle capire il perché del ritardo, ma avevo promesso di stare zitto e mantenni il segreto.
      
Al mattino la neve luccicava al sole che scioglieva la brina sui rami. Avevo messo nel sacco un pezzo di pane e, in un fiasco, metà della mia tazza d’orzo. Con una certa abilità ero anche riuscito a rubare una mela e tre o quattro fiammiferi. Lo trovai più spossato che mai, raggomitolato nel cappotto e tremante di febbre. Mangiò il pane e bevve dal fiasco. La mela invece la mise in tasca. “Io andare via” disse. Ma era troppo stanco per crederci davvero. Presi dell’erba secca trovata nella caverna e feci per accendere un fuoco. Lui mi fermò. Solo allora compresi appieno la sua paura. 
       Tornai a casa per pranzo. Fino a quel momento ero stato impegnato con Primo a cercare un modo per comunicare. Non trovammo nulla di meglio che l’antico linguaggio dei gesti e dei segni sulla terra bruna della caverna. Le poche parole che sapeva bastarono però a convincermi del suo terrore per il treno e i soldati. Dal treno era scappato ed oltre ai vestiti non aveva nulla con se a parte un piccolo libro dalla copertina scura. Ad un certo punto tracciò sul terreno la stessa stella che avevo visto sulla giacca. La indicò fissandomi. Io non avevo idea di cosa volesse dire e me lo stavo ancora chiedendo quando arrivato a casa sentii le voci di mamma e zia Petra. Corsi dentro ad abbracciarle.
       Del pranzo riuscii a trafugare una fetta di pane cosparsa con un po’, ma proprio poco, di polenta. Mia madre intanto si chiedeva scuotendo la testa che fine avesse fatto la mela nel cestino. Credo che arrossii senza accorgermi di zia Petra intenta a seguire ogni mio movimento. Un gruppo di soldati, di “quelli”, passavano marciando davanti casa. Era di loro che Primo temeva.

       Il treno andava più lento del solito, pareva facesse fatica ad attraversare la pianura tante volte attraversata. Primo fermò il respiro e strinse le spalle alla parete. Lo stesso feci anch’io senza saperne il motivo. “Perché hai paura?” chiesi a voce bassa. I suoi occhi s’illuminarono di terrore, rimasi perplesso, non mi ero accorto di zia Petra alle mie spalle.
       Lo portammo a casa di notte. Mamma aveva preparato in solaio un piccolo giaciglio di paglia con accanto una brocca d’acqua e mezza pagnotta. Attraversare il boschetto che portava alla piana mica fu un’impresa da niente. Zia Petra lo teneva per un braccio ed ogni volta che veniva meno lei lo sospingeva con una forza tale da spostare anche me dall’altro lato. Respiravamo appena, ma il sudore scendeva dalle tempie come in una calda giornata d’estate. Per molti anni l’odore di quella notte mi perseguitò nei sonni agitati di adulto. Mamma aspettava con la porta aperta. Non entrammo nemmeno che la barricò col chiavistello ed una sedia pigiata contro. Le scale che portavano al solaio furono fatte in silenzio con Primo più tramortito che lucido. Lo adagiammo sul giaciglio coprendolo con la coperta di zia Petra. Scendemmo che avevamo perso cento chili e dieci anni di vita. “E mò?” chiese mamma stringendomi al suo fianco. Zia Petra guardava fuori dalla finestra, la luna non c’era. Avesse potuto vedere si sarebbe resa conto del pozzo ammantato di un turchino intenso…
      
       Di quella casa non è rimasto niente. Il tempo ha cancellato persino i binari. Eppure ho fatto in tempo a condurre il mio treno in mezzo alla pianura. Passando vicino alla caverna dell’orso lanciavo con la motrice un lungo fischio a ricordo di quei giorni.
Papà tornò una sera d’estate. Aveva un braccio malconcio che rimase così per il resto dei suoi giorni, ma fu il più bel regalo che la vita potesse farmi. Mamma lo salutò con una carezza, poi scoppiando a piangere gli sussurrò il suo amore.
Zia Petra partì poco dopo. Mi dissero che aveva raggiunto i suoi compagni sulla montagna. Non la vidi più, ma il suo nome entrò nelle leggende del posto ed il canto nel vento delle cime.
Primo rimase con noi molte settimane nelle quali imparò la nostra lingua, a mangiare polenta ed a volerci bene. Gli chiesi se conoscesse il nome del treno. Lo ignorava, ma ne sapeva la destinazione. Quando stava per andare mi strinse qualcosa in un palmo. “Non dimenticare piccolo amico - disse - non dimenticare mai”.
Stava già perdendosi nell’orizzonte quando aprii la mano. C’era una piccola striscia di tela colorata di giallo. 

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