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I Racconti di Edoardo - In Silenzio...


Perché tante parole? Sto bene qui nella mia stanza tra le mie cose, non chiedo altro. Lo so, papà che mi vuoi bene, lo so, lo capisco dal tuo sguardo imbarazzato e curioso. Anch’io te ne voglio, ma lasciami qui senza pensare a ciò che non esiste. Ricordo quando parlavi dei tuoi progetti per me, amavo ascoltarti, come pure è ancora viva la voglia di giocare insieme… Vorrei dirtelo, ma poi chiederesti la ragione del mio silenzio ed io non saprei rispondere: come si può spiegare perché si respira senza volerlo o perché si muore?

Lo vedo mentre a fatica si alza. Gli parlo ma è lontano, vaga in un mondo senza parole, impenetrabile, oscuro. No, non provo tormento, ormai ho abbandonato le domande prive di risposte, l’illusione di un cambiamento che mai avverrà. Vorrei solo una volta, una sola stupida volta, tornare a sentire la sua voce, magari dicendo papà…

Avete deciso che devo tornare a casa, lo farò, contro voglia, ma lo farò. Rivedrò la mia stanza uguale a quando sono andato via e sentirò ancora il respiro leggero del pianto di mamma. Perché, papà non mi lasci qui? Dici che lo fai per me, per farmi ritrovare il calore di casa ed allora perché il dolore di mamma e la tristezza del tuo sguardo? Ah, non dimentichiamo il giubbotto rosso, mi va stretto però è bello come il colore delle sere di pioggia. Adoro sentir scorrere addosso le gocce di cielo mentre il vento carezza la faccia. Eppure ogni volta mi trascinano via e non serve agitarsi e odiare con forza chi violenta il mio desiderio.

Dai piccolo, andiamo a casa. Mamma t’aspetta, ha preparato il dolce che tanto ti piace. È una settimana che è in ansia per questa giornata, è passato già un mese dall’ultima volta. Un giorno, un solo giorno per farti assaporare i sapori, gli odori della tua casa. Non sono certo che ti faccia piacere, ma è necessario, piccolo, cerca di capire, è necessario per noi.

È bella la tua macchina nuova, bella e spaziosa, ma quella di prima era più calda, più vera. Là i ricordi avevano uno spazio e anche un tempo, questa non ha memoria. Si, incantano le luci del cruscotto, ma perché hai lasciato portare via la macchina che doveva esser mia? Non trattenermi, mi muovo per esser certo di vivere, in fondo la morte è come dormire: ti rilassi, chiudi gli occhi e non ha importanza se intorno c’è luce o è buio. Invece io l’inganno la morte. Quando la sento vicina apro gli occhi più che posso e respiro con forza sino a soffiar via il suo rivoltante fetore. È divertente vederla scappare tra i fantasmi di quelli che accorrono per farmi quietare. Loro non sanno, non possono sapere chi li ha sfiorati e perché. Li vedo ansimare, sforzarsi di parlare con calma usando parole prive di senso. Dicono che è tutto a posto, che non c’è ragione per avere paura, ma io non ho paura, ho solo ingannato la morte.

Spero ti piaccia la nostra macchina nuova. Hai visto come è ampia e capace? Il colore l’ho scelto pensando a te. Guarda quante luci ci sono: questo è l’orologio, questa è la radio e vicino c’è il condizionatore. Ti piace? Quella di prima l’ho data via, ormai sei grande e avevo l’impressione che facevi fatica ad entrarci. Ti prego fermati, smettila con quest’assurdo dondolio senza criterio. Dai, che ora andiamo…

Devo scendere, siamo arrivati. Aspetta, aspetta solo un momento, fammi pensare se è giusto tornare, se vale la pena ricevere l’abbraccio di chi non posso ricambiare come vorrebbe. Vedi papà, il problema è che voi non sapete ciò che so io. L’ho scoperto molto tempo fa, c’è voluto del tempo, ma sono stato fortunato a capirlo. Era il mio compleanno e tutti aspettavano che spegnessi le candeline sulla torta di cioccolato che mamma aveva preparato. Lo stavo facendo, ti giuro, lo stavo facendo, poi vi ho guardato e mi sono chiesto il perché. Per un attimo è mancato il respiro, la testa ha cominciato a girare e non ho trovato risposta. Sentivo le vostre voci incitarmi: “Dai, soffia. Dai soffia. Dai soffia…” ed io continuavo a pensare quale fosse il motivo per tanta rumorosa allegria. Poi tu mi hai messo una mano sulla spalla ed allora ho soffiato, senza convinzione, per farti piacere. Da quel momento ho continuato a pensare, ogni momento, ogni secondo, ogni respiro che questo poteva essere l’ultimo. Ho avuto paura, paura per voi. Non dormivo per esser certo della vostra vita; vi ho spiati, notte e giorno per assicurarmi che il vostro fiato fosse il fiato di sempre, poi ho capito. La morte è con noi, sempre, ma la puoi ascoltare solo nel silenzio, sentirla trascinare i passi è difficile, è necessario esercizio ed attenzione e per difendersi occorre imparare ad imbrogliarla tacendo e respirando con forza. Vi ho protetto sino a quando ho potuto, poi avete pensato che fossi malato, che il mio silenzio fosse colpevole. Non avete capito, non potevate, e non vi condanno per questo, ma almeno lasciate a me la possibilità di difendermi dalla bestia pronta a sbranare il presente. Mi guardi. Non senti, le mie parole ti sono ignote come la mia battaglia, eppure lo faccio anche per voi, cosa credi che il vostro dolore mi sia indifferente? Lo so che morireste, che proprio io vi offrirei in pasto alla mia nemica se Lei vincesse contro di me ed allora devo resistere, resistere anche all’amore soffocante di mamma e alla tua disperata rassegnazione. Si, ora scendo dalla tua bella auto senza ricordi, sono pronto ad affrontare un altro giorno privato del necessario silenzio, costretto a concedere un vantaggio pericoloso per tutti.

Perché non vuoi venire? Siamo arrivati piccolo, mamma è già pronta ad accoglierti, a meravigliarsi per quanto sei cresciuto. Non biasimarci per questo, la tua malattia ci ha privato della gioia di vederti crescere e ti troviamo adesso adulto senza conoscere nulla dei tuoi desideri, dei sogni o delle speranze. Siamo malati insieme piccolo, legati con una catena allo stesso ceppo. Non lo ricorderai nemmeno, ma penso spesso ad un compleanno di tanti anni fa. Forse l’ultimo in cui ti avemmo tra noi, eri contento e ci guardavi stupito con quei grandi occhi neri. Dio cosa darei per ricordarlo insieme e magari sorriderci su…

Mamma è bella. Era tanto che non la vedevo. Sono quasi contento di essere qui, anche se questi sono i momenti più rischiosi. Non posso lasciarmi andare, devo trattenere le stupide lacrime che scendono senza ritegno. Non carezzarmi, non farmi del male per il troppo amore. Sì, ti bacio, ma senza trasporto. Diverrei debole, ed allora stringo le dita sino a provare dolore, ho bisogno di distrarmi, comincio a muovermi. Devo reagire, così. Ho bisogno di correre, lasciatemi stare. Ti prego mamma non fermarmi, ti prego… Vedi… è passato, ora sono di nuovo capace di avvertire i suoi passi. L’emozione s’allontana e con essa il pericolo. Voglio il mio letto, l’isola dei sogni di quando ancora credevo esistesse il domani. Fatemi stendere, guardare il soffitto attraverso il quale ho scoperto un mondo infinito. Spegnete la luce, Lei è qui. Devo riuscire di nuovo ad imbrogliarla. Non abbiate paura se sentirete il respiro ansioso e gli occhi saranno sbarrati sarà il segno che ho, che abbiamo ancora vinto.

Finalmente a casa. Lei lo abbraccia come quando i bambini tornano dal primo giorno di scuola. Non ci sarà mai abitudine, ho difficoltà anch’io a contenere l’emozione mentre la bacia. È sempre restio a farlo, ma ora mi sembra più convinto, persino le mani si muovono meno. Basta, devo smetterla di cercare segni dove non vi sono. Lui è così e tale resterà, sarei scemo a sperare ancora dopo tanto tempo, sarebbe banale e cattivo negare l’evidenza. Accompagnalo nella sua stanza, forse è stanco. Per lui deve essere una fatica spossante ogni cambiamento, non soffochiamolo, lasciamolo riposare, ora è qui, a casa.

Ho dormito, Lei non si è accorta che avevo abbassato le difese, magari era occupata a lacerare qualcun altro. Sento mamma parlare a telefono. Sta raccontando a qualcuno che sono tornato, la sua voce è ogni volta più stanca. Ora ride. Chissà chi le regala quest’effimera ombra di felicità: sono contento, a volte è meglio ignorare le cose. Papà invece è strano. Lo vedo silenzioso ed assorto, forse anche lui comincia a capire, ma questo sarebbe un problema non sempre difendersi in due è meglio. Sarei costretto a parlare, a spiegargli come fare ed in che modo riconoscerLa. Dovrei interrompere il silenzio con il rischio di non riuscire a ritrovarlo. Meglio distrarlo: di solito quando vado vicino alla porta lui pensa che voglia uscire e allora andiamo fuori. Si, farò così…

Vorrei sapere per quale motivo ogni volta che torna il figlio deve avvisare tutti i conoscenti. Non riesce proprio a comprendere che a nessuno fa piacere rivederlo, ritrovarlo e sentirsi sconvolti da un senso d’impotente fastidio. Non lo capisce ed allora giù con le telefonate ad ascoltare false promesse di venire a trovarci prima che andrà via. Se lo avessero fatto ogni volta avremmo avuto la fila fuori la porta. Ecco, si sta agitando, fino adesso era andata alla grande, lo farò uscire un po’, gli piace stare per strada, lo capisco dal modo in cui mi stringe la mano.

Ci sono riuscito. Meno male. Sento la sua mano stringere la mia. È forte papà anche se l’età lo ha reso minuto. Un tempo ero costretto ad alzare la testa per guardarlo negli occhi, oggi è lui a doverlo fare. Indica una vetrina. Ci avviciniamo, è illuminata come una strada nei giorni di festa e c’è un giaccone rosso con grandi tasche. È bello. Il rosso è un colore vivo, ha forza e si distingue dagli altri. Mi tira dentro al negozio. Chiede alla commessa di poterlo vedere da vicino. È una ragazza cortese, ha gli occhi color carbone. Mi guarda, è perplessa. Spero di evitare l’ennesima sceneggiata di chi allontana le proprie inquietudini in una pietà senza valore. Mi aiuta ad indossarlo. Sento le sue mani sfiorare il mio corpo, sono mani leggere e cortesi. Le tocco i capelli, sono di seta, mio padre mi stringe il polso. Fai male papà. Perché non la posso toccare? L’ultima cosa che vorrei è farle del male. Perché non la posso toccare? Ecco, l’hai spaventata. Si ritrae, ti giuro non voglio farti del male, vorrei solo abbandonarmi, una volta, alla dolcezza di un gesto che non capisco, a sensazioni sconosciute e insolitamente attraenti. Vorrei poter poggiare le labbra sul suo viso, lei - sono certo - non piangerebbe come mamma, sarebbe diverso, forse troppo per essere vero.

Respira piccolo e non abbassare lo sguardo. Sono orgoglioso di te, non ha importanza se gli altri guardano incuriositi e con un’aria di pena. Alza la testa, guarda quel giaccone. Ti starebbe bene, il rosso è un colore che ti piace e potremo toglier via quello vecchio che non ti va più. La commessa ci guarda, ti guarda, forse sta pensando che è un peccato: un ragazzo così… mah, proviamo il giaccone. No, cosa fai? sta fermo. Gesù la vuoi smettere. “Mi scusi, è come un bambino”. Paghiamo e andiamo via. Non fare quella faccia dispiaciuta, lo so che il tuo corpo si ribella alla mente. Lo so e non posso far niente…

Papà sta parlando, dice qualcosa sul come comportarsi. Io non ho fatto nulla. Adesso provo a baciare mamma. È contenta e papà non mi ferma. Le tocco i capelli, sono meno morbidi di quelli della ragazza del negozio. Papà non mi ferma. Eppure la differenza è sottile. Come può averla capita? È solo un caso, lui è l’uomo di sempre, quello di quando avevo dieci anni e poi quindici e poi altri ancora… A proposito quanti ne ho adesso? Cerco di ricordarlo. L’ultima volta era una giornata di sole, vennero insieme a mio fratello portando la solita torta. Riccardo disse qualcosa a proposito degli anni, per lui sono importanti. Ha fretta di crescere, crede in un domani da conquistare. Non sa che è il presente da difendere. Quello che ancora deve venire non esiste, si può immaginarlo solo mentendo a se stessi. Ma lui è contento e adoro ascoltarlo mentre racconta i suoi sogni. Oggi dopo pranzo, chiusi nella stanza che una volta era la nostra, mi ha confidato d’avere una ragazza. Per un attimo sono stato tentato di parlare per raccomandargli di non dirlo a papà o quanto meno di stare attento ai polsi. Poi, fortunatamente, mi sono trattenuto. È stata l’ennesima prova di come sia l’affetto l’alleato più pericoloso della mia nemica. Raccogliendo le forze e fuggendo al richiamo della sua voce ho cominciato ad agitarmi, forse l’ho spaventato, ma credo sia meglio così.

Cerco di spiegare a mia moglie ciò che è successo. Non è facile farle capire che adesso nel corpo lui è un uomo e saranno nuovi problemi. Forse ha capito l’errore, bacia la mamma come a farsi perdonare, le accarezza i capelli. Sono questi momenti in cui la dolcezza vince le difficoltà, dai piccolo fai vedere a mamma come ti sta il giaccone che abbiamo comprato...

È sera, sono stanco. Hanno acceso la televisione sul programma che preferisco. Riccardo ha chiesto a papà il motivo per cui questa trasmissione mi piace tanto. Papà ha detto la prima cosa che gli è venuta in mente. Non può immaginare l’importanza delle domande fatte dal tizio nella televisione. Esse sono l’essenza della vita, infatti quando qualcuno sbaglia non lo si vede più, si perde nel passato, forse viene dato in pasto alla morte. Io le risposte le imparo tutte. Ricordo ogni minimo dettaglio di esse. Fino a questo momento non sono servite, ma chissà forse un giorno sarò chiamato anch’io a rispondere e devo essere pronto ad ogni evenienza. Le mie viscere brontolano. Cerco di resistere, questo è uno dei tanti stratagemmi che Lei adotta per sviarmi, batto i piedi per terra così l’allontanerò mentre il mio corpo cede alle vergognose esigenze. Mamma mi sgrida. Mi spiace non poterle far capire l’inganno di cui sono vittima. Andiamo in bagno. So bene cosa dovrei fare, ma non sono solo e se mi distraggo potrebbe colpire chi è vicino. No, non posso rischiare, lascio a mamma il compito di pulire il raggiro. È deprimente subire la vergogna di un gesto d’amore, ma devo sopportarlo per il suo bene.

Ci risiamo. Non capisco perché quando è a casa non riesce a dominare i suoi istinti. Mia moglie si arrabbia: è inutile, ma serve a farle conservare la sua autorità. Lo accompagna in bagno. Potevo farlo io, ma le sarebbe stato ancora negato il sacrificio di esser madre.

Riccardo dorme, papà continua a vedere la televisione in cucina. Sono convinto che è il suo modo di allontanare gli affanni. Mamma è a letto, stanca. La luce della strada attraversa le tende a fiori celesti che coprono la finestra disegnando strane ombre sulla parete. Forse è Lei che si avvicina: sento lo strisciare dei passi mentre attraversa la notte. Un miagolio assurdo e improbabile arriva dall'esterno. Ho la sensazione che attenda qualcuno. Chiudo gli occhi. No, stavolta non si avvicina rimane fuori, in attesa, come quando aspettavamo zio Carlo ed invece suonò il telefono per avvertire della disgrazia. Già il telefono. La morte ha sempre un rumore che l’accompagna. Zio Carlo era divertente, ogni volta che veniva portava giocattoli e caramelle, papà lo sgridava perché diceva che avrebbe dovuto pensare al domani invece di sperperare quello che guadagnava. Papà a quale domani doveva pensare zio Carlo, avrei voluto chiedergli, a quale domani?
Il miagolio è cessato. Mi alzo. I rumori sono svaniti, la strada è deserta. Guardo mio fratello dormire come quando eravamo bambini. Vorrei che oggi non finisse mai. Sposto le tende e m’accorgo della luna. Com’è bella, la sua luce è delicata come la vita e forte, forte al punto di allontanare il nero della notte. Vorrei che oggi non finisse mai, vorrei fosse questa l’eternità…