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I Racconti di Edoardo - Nella bottiglia


Tirò su il cartone che lo copriva controllando la bottiglia tra le sue braccia. Conteneva un vino saporoso e leggermente aspro. Un signor vino. La strinse forte lanciando un’occhiata furtiva attorno. Bisogna stare attenti, c’è brutta gente in giro. La settimana prima due mascalzoni lo avevano picchiato e derubato delle poche lire che aveva. Ah, già ora bisogna dire euro, ma tanto o duemila lire, o un euro, Pecchione sempre un litro di rosso ti dà. Su questo quel bastardo è chiaro, nella sua cantina quello buono tanto costa e amen.
Diede un’altra poderosa sorsata, si grattò ferocemente la testa e chiuse gli occhi. Avrebbe voluto sognare un’enorme piscina piena del miglior vino. Tutto a sua disposizione. Sogghignò pensando alla faccia di Pecchione se avesse potuto vedere la scena. Le bestemmie sarebbero scese a grappolo, ma alla fine avrebbe bevuto anche lui, ne era certo. 

Sbadigliando l’aria umida entrò nei meandri della gola arsa dall’alcool, sputò lontano sfiorando Lattuga che dormiva due scalini sotto e tossendo riprese a dormire.

La mattina era ancora più fredda della notte. Il sagrestano li svegliò con le solite maniere. Di lì a poco sarebbe stata officiata la messa, non si poteva proprio dare quello spettacolo indecoroso a chi, prima di andare a lavoro, passava per la Chiesa a cercare un aiuto per la giornata o a chiedere perdono per una nottata di peccato e cattivi pensieri. E che diamine! Francesco il sagrestano pensava che il parroco fosse troppo accondiscendente con quei quattro ubriaconi. Mai avrebbe dovuto permettere di farli rimanere dalla sera alla mattina a riempirsi di vino e bivaccare sui gradini della casa di Dio. Fosse dipeso da lui… A nulla erano valsi i tentativi di convincere don Ciro, aveva anche messo in giro voci strane sui quattro, a fin di bene si capisce, ma senza risultati: “Meglio qui che sotto un ponte” gli aveva risposto il prete. “Si, però sotto i ponti non passa la gente per bene” avrebbe voluto ribattere, ma prima o poi…
Lattuga fu l’ultimo a sollevarsi, lo faceva apposta per far arrabbiare quanto più possibile il sagrestano. Non lo sopportava, proprio non lo sopportava. Gli ruttò praticamente in faccia provocandone le ire furibonde e s’allontanò trascinandosi lontano. Aveva quasi cinquant’anni e poche cose sarebbero state in grado di stupirlo. Durante una sbornia colossale raccontò di aver viaggiato in posti lontani e di aver posseduto ricchezze capaci di frastornare chiunque. Nessuno si pose il problema se fosse vero o meno, per tutti rimaneva Lattuga e lì, questo, era più che sufficiente. Il soprannome glielo avevano appioppato appena arrivato da quelle parti. Il sagrestano (sempre lo stesso mastino) una sera lo sorprese a mangiare dell’insalata in un cantuccio della chiesa e successe il pandemonio. Cosicché, tra le risate sguaiate di quelli che sarebbero diventati i suoi compari di sbornia, era stato costretto ad andar via infilandosi in tasca la rimanenza della cena vegetariana. Da quel giorno per tutti divenne Lattuga. Il suo vero nome era un mistero. Forse, e con molti dubbi, l’unico a saperne qualcosa in più era proprio il parroco, ma figurarsi se quello parlava.
Nei giorni di festa e specialmente di particolare freddo, Lattuga seguiva la messa rispondendo con naturalezza ai vari passaggi del rito, il che faceva capire come non fosse proprio a digiuno di certe cose. La sua esistenza andava avanti così, tra una bottiglia e l’altra, intento a sopravvivere grazie ad una tenace ricerca tra i rifiuti ed a piccoli lavoretti fatti qua e là. Mai l’avevano visto chiedere l’elemosina e mai ne avrebbe accettata. Una volta una signora gli lasciò cadere vicino un euro: dopo un secondo in cui rimase interdetto, Lattuga le corse incontro porgendole due monete da cinquanta centesimi. Passava il tempo girovagando per i dintorni e all’imbrunire si piazzava davanti alla chiesa aspettando il giorno tra il vino e i suoi pensieri. Ormai da quelle parti lo conoscevano tutti, il suo tanfo era inconfondibile così come l’evidente strafottenza. La barba incolta e la carnagione scura gli davano un aspetto inquietante, anche se l’altezza, i capelli sconvolti e l’impermeabile appiccicato addosso contribuivano a farne una figura quasi mistica. Tuttavia di ascetico aveva poco, molto poco. Amava sdraiarsi sui gradini della chiesa e guardare attraverso la bottiglia. Vedere la gente passare, correre, affannarsi, nell’alone verdastro del vetro lo metteva di buonumore. Spesso s’addormentava pensando che sarebbe bastato un niente per frantumare ogni cosa insieme alla bottiglia. Ma, tutto sommato, il mondo gli piaceva ed allora si teneva la bottiglia, il vino e la gente. L’unico suo vero problema era il freddo. Quando il tempo volgeva al brutto si stringeva nell’impermeabile ad imprecare contro il cielo. Poi, un giorno, decise che - almeno quando la chiesa era aperta - rimanere fuori a gelarsi era da stupidi e cominciò a cercare il modo ed il posto dove nascondersi a dispetto del sacrestano.
La ricerca fu lunga e pericolosa considerata la presenza del “mastino”, ma alla fine la costanza pagò. Accanto al confessionale, dietro ad una tenda di velluto rosso cupo, esisteva una cavità nella parete piuttosto ampia dove il parroco precedente avrebbe voluto metterci qualche santo a devozione. Andato via il prete, quello spazio aperto rimase così a far bella mostra di sé. Quando la chiesa fu ristrutturata, qualcuno - benedetto sia, pensò Lattuga - per un fatto di estetica, lo coprì con della plastica rigida simile al legno. Da allora di quella specie di sgabuzzino si perse ogni traccia fino a quando Lattuga, casualmente, vi si appoggiò sopra.
Ci mise un attimo a rendersi conto d’aver trovato qualcosa di prezioso. Tambureggiò con la mano più volte sul finto legno per esser certo di non sbagliare, continuando a batterci sopra s’abbassò sino ad inginocchiarsi, poi su, più su, fin sopra la testa. Si, appena dietro quel poco di plastica c’era un vuoto e pareva abbastanza grande da essere un nascondiglio ideale.
Da quel momento intere serate e decine di Messe furono dedicate a scostare, lentamente, con attenzione, centimetro dopo centimetro, la copertura tanto da poter passare. La prima volta che mise piede in quello spazio angusto e buio, gli parve di aver scalato la più alta delle montagne. Entrarvi era facile, la posizione accanto al confessionale e il pesante tendaggio permetteva di muoversi con un certo agio senza esser visti e il finto legno tornava a posto quasi da solo. Era perfetto. Se a questo si aggiunge che l’aveva fatta anche al mastino, allora la soddisfazione era doppia.
Cominciarono così i ritiri di Lattuga.
Di solito, con il freddo pungente, riparava lì per la messa vespertina e ne usciva poco prima che il sagrestano facesse l’ultimo giro a caccia di clandestini. Dovendo evitare le luci artificiali, con un chiodo e tanta pazienza, aveva fatto alcuni piccoli fori nel muro che dava verso l’esterno, tra le foglie d’edera proprio sotto un neon, questo garantiva una certa ventilazione ed uno spicchio di chiarore. Un paio di bottiglie e tre o quattro vecchi cuscini da cucina completavano l’arredamento permettendogli di stare seduto con una certa comodità. C’era un solo piccolo, fastidioso, inconveniente: era costretto a sopportare il vociare lamentoso di chi confida i propri problemi di coscienza.
All’inizio fu naturale ascoltare ogni parola, seguire i discorsi, spesso privi di senso, di chi rivelava desideri indicibili, colpe gravi e scempiaggini varie oltre ad una marea di corna, ma, così come capita a chi compra un orologio a pendolo, col passare dei giorni quasi nemmeno s’accorgeva se il rifugio dei peccatori fosse occupato. In ogni caso aveva imparato a distinguere le voci di quelli che venivano a confessarsi. Quella stridula desiderava la sorella del marito e puntualmente il giovedì veniva a lavare il suo osceno desiderio nel lavacro del pentimento, pronta ad un’altra settimana di pensieri libidinosi; il trombone continuava a truffare e a dirsi costretto a farlo mentendo pure a Dio; il tono squillante da bambina descriveva invece inverosimili situazioni degne di un premio per la miglior sceneggiatura. Di tutte queste voci però ignorava il viso. A volte tra le chiacchiere della gente, gli pareva di individuare un peccato, ma abbandonava subito ogni curiosità per il timore di mettere a rischio il suo riparo.
Nel frattempo aveva imparato a vivere in quell’antro osservando alcune piccole, preziose cautele. Per primo occorreva guardarsi dal raffreddore: la tosse e peggio ancora gli starnuti rappresentavano un vero pericolo, e così appena iniziava a calare la temperatura divenne solito aggiungere all’impermeabile una vistosa sciarpa color arancio ed alla dieta un paio di aspirine prese chissà dove. Poi si accorse della necessità di attrezzare la sua tana con qualche cosa in cui conservare un po’ di cibo. Riuscì a trovare nei rifiuti un vecchio contenitore termico, uno di quelli che si portano in spiaggia o nei pic nic estivi, e lo trasformò nel suo frigorifero privato. Il trasporto fu complicato, ci vollero quasi cinque giorni per smontarlo, portare tutti i pezzi nel rifugio e rimontarlo, ma alla fine il risultato poteva dirsi soddisfacente. Per ultimo ebbe l’attenzione di lasciare sempre una bottiglia con il collo molto largo a disposizione. Sapete certe volte scappa…
Con il tempo, Lattuga prese in seria considerazione la possibilità di passare la notte nel suo monolocale ecclesiastico. La difficoltà nasceva dal non poter distendere le gambe, ma meglio qualche crampo in più del freddo polare e se poi era proprio necessario poteva sempre alzarsi per ricordare al sangue di circolare nelle parti basse del corpo. Avrebbe potuto anche uscire e dormire sulle panche, ma chi gli assicurava che si sarebbe svegliato prima dell’arrivo del pestifero sagrestano?
Il dubbio gli rimase sino alla notte di Sant’Agnese, quando, un po’ per le gambe e molto per il vino, si stese a russare su una panca con Gesù Cristo di fronte e Sant’Ignazio di lato. Dormì come non ricordava da anni sino a quando la luce dell’alba attraversando le grandi finestre a mosaico della chiesa lo svegliò in tempo utile a sparire. Ascoltando le solite imprecazioni mattutine del mastino intento a cacciare via i compari accampati sulle scale trattenne a stento una risata. Da quella notte la panca contrassegnata col nome della famiglia Persietti, divenne il suo letto preferito. Stendere le gambe, stiracchiarsi, togliersi le scarpe al riparo dal vento gelido fu come rinascere e spesso ringraziò il Padrone di casa per quel regalo inaspettato.
 
Quella mattina si svegliò di pessimo umore. La bocca era impastata come al solito, lo stomaco brontolava come ogni giorno, nel fiasco ai suoi piedi c’era ancora un goccio… eppure era di pessimo umore. Passandosi le mani tra i capelli ispidi sentì qualcuno bestemmiare per strada, decise di alzarsi. A fatica si diresse verso il contenitore dell’acqua benedetta e sciacquandosi la faccia cercò di cacciare il senso di fastidio. Un calpestio lo fece sobbalzare. Era troppo presto per il sagrestano. Dei ladri? O il parroco in crisi d’insonnia? “La giornata non è delle migliori” pensò rintanandosi nel suo buco dietro la tenda. D’improvviso gli venne in mente il fiasco vicino alla panca. Spostò appena la copertura della parete ed intravide Don Ciro intento ad aprire il portone della chiesa. Si ritrasse immediatamente, il respiro era profondo ed il battito del cuore accelerato. Un errore e addio notti al coperto. Tese l’orecchio pronto a cogliere il minimo fruscio e preparato alla scoperta del fiasco. Sarebbe toccato poi al sagrestano setacciare palmo palmo la chiesa ed a quel punto…
Il prete tornò sui suoi passi seguito da qualcuno. Per qualche secondo non si udirono rumori, poi uno, lieve, indicò che si erano seduti vicino al confessionale. “Una chiesa tanto grande, proprio qui dovevano fermarsi” pensò sconsolato Lattuga volgendo uno sguardo implorante verso l’alto. 
Il parroco disse qualcosa, cercando di ascoltare meglio Lattuga si spostò con molta cautela, attento soprattutto alla parola “fiasco”. Cominciò invece a parlare un’altra persona. Era una donna, la voce non gli ricordava peccati particolari, ma doveva essere in uno stato di profonda prostrazione perché dopo un po’ le parole furono alternate ai singhiozzi. In un rincorrersi di angoscia raccontò una storia di violenza e brutalità nascosta, di una famiglia perfetta marcia come una mela da buttare, della sofferenza di madre per una figlia di otto anni troppo chiusa verso gli altri e della scoperta, terribile, del motivo. Maledicendo il marito e soprattutto se stessa per aver capito tardi, ricordò al prete di essere in confessione implorando Dio di fare giustizia perché gli uomini non erano in grado di farlo. Seguì un silenzio rotto dal pianto della donna.
A fatica il parroco trovò il modo di chiederle se fosse sicura di quanto aveva detto, la domanda fu fatta con dolcezza e con la segreta speranza di trovare uno spiraglio che offrisse la possibilità del dubbio.
La risposta spazzò via ogni illusione lasciando un gelido manto di strazio nella casa di Dio.
Lattuga immaginò Don Ciro portarsi le mani sul volto mentre raccomandava la donna di stare vicino alla figlia, di allontanare subito quella bestia che il Padre Eterno aveva voluto uomo; era certo che le facesse una carezza quando, con decisa mitezza, suggeriva di rivolgersi alla polizia assicurandole tutta la sua assistenza.
Il “no”, immediato e rabbioso fece tremare anche i santi ed echeggiò nella chiesa per un tempo interminabile. “No – ripeté con forza la donna – cosa sarebbe di mia figlia? Marcata a vita per quale colpa? Additata come la disgraziata figlia di un padre schifoso, segnata per sempre non solo nel corpo e nell’anima, ma anche dalla gente. E dopo il pietismo cosa rimane? No. Nessuno deve sapere. Starò ogni momento accanto a lei, eviterò anche che la sfiori soltanto, lo costringerò ad andar via, ma il dolore deve rimanere il mio. Lei mi deve aiutare ad avere la forza di fare tutto questo, ho bisogno che qualcuno sappia per ripetermelo se avrò momenti di esitazione. La prego, la prego…” 
Lasciando la pena a riempire ogni angolo la donna scomparve nel giorno che nasceva. Una lama di luce attraversò la finestra posta di fianco all’altare e come un gessetto colorato tracciò una linea nell’aria. Da un lato rimase un prete seduto a fissare un crocifisso, dall’altro un barbone ubriacone che sentiva il vino tornare alla gola. Nessuno dei due si accorse del raggio di sole posato su un fiasco lasciato a terra, tra i banchi, vicino al confessionale.

Ma la vita prosegue, e Lattuga che per un paio di notti aveva preferito dormire fuori malgrado il freddo, tornò nel suo rifugio, al vino di Pecchione e alla solita indifferenza. Era un periodo buono: la gente aveva deciso di lasciare ogni ben di Dio tra le immondizie.
 In un bidone dei rifiuti poco lontano dalla chiesa aveva trovato un barattolo di vetro a chiusura ermetica, adatto al suo “frigorifero” e un paio di forbici. Non erano un granché, ma utilissime per tagliare pane, formaggio ed i pezzi di carne lessa e di salame che gli dava il padrone del ristorante Azzurro per portar via la spazzatura.
In un altro contenitore scovò un cappello di flanella ed un maglione rosso di lana morbida, e nei pressi della scuola ebbe la fortuna di rinvenire un braccialetto d’oro che vendette alla signora Gina per qualche decina di euro.
Insomma non poteva lamentarsi di quell’inizio di febbraio, almeno fino a quando sentì la voce.
Stava sistemando la bottiglia di vino in una tasca dell’impermeabile pronto ad entrare in chiesa dalla porta della sagrestia quando l’avvertì, distinta e chiara alle sue spalle. Alzò la testa sperando di essersi sbagliato, ma la donna tornò a parlare. Era lei, quella del pianto straziante. Avrebbe fatto di tutto per riuscire a rimanere impassibile come per tanti altri peccati, avrebbe voluto fermare il collo che lentamente girava, costringere i suoi occhi ad abbassarsi per impedire di vedere, togliere la voce a quel viso racchiuso in un mare di capelli neri e attraversato da una lucida malinconia. Accanto, mano nella mano, una bambina esile e spaurita fissava il vuoto. Il loro atteggiamento strideva con il resto che parlava di un’esistenza senza troppi problemi. Lattuga ebbe la conferma che il destino non guarda al portafogli. Rimase a fissarle, poi come un automa iniziò a seguirle. Doveva sapere, non importa cosa, doveva sapere.
Il palazzo era quello del dottor… come si chiama… ah si, Chiari, una persona squisita. Le vide entrare nel portone, salutare il portiere e perdersi nell’androne.
Si sorprese a chiedere al custode chi fossero. La risposta lo paralizzò: “La signora Chiari e sua figlia”.
Poteva mai essere? Forse aveva sbagliato, in fin dei conti quando aveva sentito la storia raccontata dalla donna a don Ciro era l’alba, appena sveglio, spaventato per la storia del fiasco, si, certamente la situazione e il residuo della sbornia lo stavano ingannando. Il dottor Chiari è un brav’uomo, tutti conoscono la sua disponibilità. Per un certo periodo aveva fatto della sagrestia una specie di ambulatorio visitando i più indigenti ed anche lui una volta era ricorso al suo aiuto. Da tanto non lo si vedeva in chiesa, ma questo non rappresentava certo una colpa o un indizio. No, stava commettendo di sicuro un errore. Camminò a lungo, ripensando a quella mattina. La bottiglia ancora in tasca con il tappo al suo posto. Cercò di trovare qualche sicurezza nel ricordo dei singhiozzi e di un pianto, cercò di rammentare ogni parola del parroco… Non un nome, una piccola maledetta indicazione. Nulla. I preti sanno mantenere i segreti degli uomini e della loro coscienza. Verso le cinque decise di aver bisogno della bottiglia e mentre il cielo cominciava ad incupirsi chiuse gli occhi fuggendo dal mondo e dai suoi pensieri.

Come tutti i giorni il dottor Fabrizio Chiari uscì dal portone alle otto in punto. Camminò fino al garage dietro casa e senza fretta aspettò che gli prendessero l’auto. Partì dopo aver scambiato qualche chiacchiera ed un sorriso con l’uomo dell’autorimessa. Lattuga tornò davanti al palazzo appena in tempo per vedere la signora Chiari andare con la figlia verso scuola.
Perché l’accompagnava la madre se solo pochi minuti prima era sceso il padre e per giunta la scuola è sulla strada? Forse la bambina vuole così. O probabilmente la signora ha qualcosa da fare. Oppure possono esserci altri mille motivi. “E tra quelli…” pensò Lattuga. Bevve un sorso, uno solo. Sperò in un’attesa lunga. Almeno il perché sarebbe stato evidente. Passarono invece una ventina di minuti e la signora tornò. Questo accadde anche il giorno dopo e il successivo e per una settimana e quella appresso. Non c’era stato un pomeriggio, un sabato o una domenica che Lattuga avesse visto o potuto immaginare la bambina sola con il padre. Mai, nemmeno per un momento.

Era tardi, la chiesa pareva un teatro abbandonato, i pochi rumori della strada giungevano ovattati nella penombra che allungava sagome scure. La seconda bottiglia si avviava ad essere svuotata mentre la mente vagava per i misteriosi percorsi dell’anima. Con i piedi poggiati sulla panca davanti e l’impermeabile buttato di lato, Lattuga fissava l’altare. Sbadigliò sguaiatamente passandosi la mano tra la barba. Chissà se Gesù si era mai ubriacato, magari la notte in cui lo tradirono. A volte il vino fa vedere meglio le cose, le spoglia delle bugie del vivere. Forse gli sarebbe servito, avrebbe capito l’idiozia di chi lo portava in croce e di tutto quello che sarebbe successo poi. Tutto, compreso un ubriacone che duemila anni dopo non riesce a dimenticare una storia ascoltata per caso. La bottiglia vuota volò lontano frantumandosi in mille schegge sotto la statua di un santo con un libro in mano e dal nome sconosciuto. Che senso aveva la ricerca fatta, la quasi sicurezza di conoscere i volti di quella lurida faccenda se non poteva far nulla? Bevve ancora guardando il vetro sparso. Ora gli toccava pure pulire i segni del suo impotente sconforto. Guardò il crocifisso: “Della nostra impotenza” sussurrò.
Il sonno tardava ad arrivare sebbene anche il terzo litro di rosso avesse riempito lo stomaco, gli venne voglia di pisciare, e si diresse verso il bagno della sagrestia. Per andarci occorre attraversare un piccolo corridoio con finestre dalle lastre bianco latte. Alle pareti una serie di foto, in una si vedeva il parroco sorridere seduto nello studio, intorno parecchie persone, tra loro il dottor Chiari e figlia. La bambina non rideva. Uno spasmo dello stomaco spinse il vino verso la bocca. Arrivò appena in tempo in bagno per vomitarne ogni goccia. La testa gli scoppiava. Tornò a guardare la foto. Il tempo parve dissolversi riportandolo indietro negli anni, ricordò cose che sperava dimenticate. Strinse forte i pugni mentre dalla vetrata alle spalle i fari di una macchina facevano scivolare la sua ombra sul muro.
Non si stese sulla solita panca. Nel rifugio chiuse le gambe tra le braccia poggiando il mento sulle ginocchia. La notte fu lunga senza vino e senza sonno.

La notizia fece il giro del rione in un niente. Era solo mezzogiorno e Pecchione raccontava per la centesima volta ciò che aveva visto, aggiungendo sempre un particolare. Alla fine della giornata non sarebbe stata più la stessa storia. Nei negozi non si parlava d’altro. Tra un chilo di pane o di frutta ed una scrollata di testa l’argomento era esclusivamente quello.
L’avevano trovato verso le sei, Pecchione attribuiva la scoperta a se stesso, ma in realtà fu uno degli operai del forno all’angolo mente tornava a casa a scorgerlo, riverso accanto ad un cumulo di spazzatura. La faccia rivolta verso il marciapiede e le mani sotto il petto. Da lontano il ragazzo aveva pensato ad un drogato e s’era avvicinato con l’intento di smuoverlo. Quando vide la pozza di sangue circondargli il torace si rese conto che quella mattina non sarebbe andato a letto. 
La polizia recintò i dintorni con un nastro bianco e rosso, mentre il risveglio della città paralizzava il traffico e i passanti si fermavano incuriositi a cercare di capire cosa fosse successo.
La signora Chiari scese da una macchina grigia, accompagnata da don Ciro. La calca si aprì come il mar rosso al passaggio di Mosè. Qualcuno le mise una mano sulla spalla mentre la compassione riempì gli occhi di tutti. Lei rimase ferma, immobile a guardare il corpo di quello che era stato il marito, poggiato su una chiazza di colore rosso aggrumato, fisso in una posa innaturale con attorno una paradossale striscia di gesso bianco. Non fece un gesto fino a quando, poggiando il braccio su quello del prete, si voltò tornando alla macchina.

I funerali si svolsero dopo alcuni giorni. Una folla enorme partecipò commossa. Il parroco fece un’omelia toccante ricordando i mali della nostra società e implorando Dio di perdonare quanti si macchiano di colpe troppo grandi per essere capite. La gente applaudì emozionata quando il feretro fu portato fuori dalla chiesa. La figlia non c’era. La madre, dissero, l’aveva lasciata da una zia, ancora non sapeva quello che era successo. Erano stati colpi secchi, precisi di una lama strana, a due punte che avevano tolto la vita ad una delle persone più perbene della zona. Forse una rapina, lui doveva aver reagito, era riuscito a non farsi derubare, ma aveva pagato a caro prezzo il suo gesto. E’ assurdo, pensò il sagrestano, incolpando la troppa tolleranza dei nostri tempi. Una brava persona che deve cadere sotto i colpi di un balordo. E’ assurdo.

La cerimonia era finita da qualche ora, e don Ciro ritornava dopo aver accompagnato la signora Chiari a casa. Sentiva la fatica in ogni muscolo e gli dolevano i piedi quando prese a salire le scale della chiesa. Su un lato, sdraiati più che seduti, i soliti barboni con la loro bottiglia di vino. In cima, poggiato con le spalle su una delle colonne di marmo bianco che troneggia all’ingresso, Lattuga, stava cenando con un pezzo di formaggio duro, usava le forbici a mo’ di coltello. Il sole tentando di resistere alla sera lanciava gli ultimi sprazzi di luce. Uno di essi colpì le lame e il piccolo bagliore riflesse negli occhiali del prete che si girò incontrando gli occhi di Lattuga.
Fu un attimo...
Come un lampo improvviso don Ciro ricordò il fiasco di vino trovato in chiesa, il pianto di una madre, la tristezza di una bambina e il sagrestano che non si lamentava più di essere stato ruttato in faccia.
Fu un attimo...
I preti sanno mantenere i segreti degli uomini e della loro coscienza.

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