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I Racconti di Edoardo - Il Giocatore di carte


Quella sera avevo un cappotto di lana calda, le mani in tasca e camminavo tra la gente. Faceva freddo, davanti ad una vetrina alzai il bavero del soprabito mentre una signora passandomi accanto apriva l’ombrello. Guardai in alto, non pioveva. I fari delle auto erano bagliori nei riverberi dell’asfalto. La donna s’allontanava mostrando orgogliosa il suo parapioggia colorato. Era d’autunno e la mia vita cambiò.
Se vorrete ricordarmi, dite che non vendevo illusioni. 
Parlando di me raccontate delle mie mani. Di quando non tremavano e stringevano un chicco di grano e un po’ di terriccio. A guardare bene, nascoste tra le pieghe della pelle, c’erano anche goccioline di rugiada raccolte sulle strade percorse.  
Volendo dilungarvi - ma non ne comprenderei il motivo - potrete parlare del mio vestire o, ancora, di un uomo che trascinandosi per le vie ha creduto nell’uomo.
Guardatevi intorno...
Vedete quei giocatori di carte? Il più anziano è nato nel vento e nel vento è cresciuto. E’ convinto d’essere un senza Dio, ma è devoto alla vita. Ha tre figli. Il primo è un soldato e ama la guerra. Non può farne a meno: il dolore è il suo cibo, l’odio la sua acqua, l’ultimo sguardo di chi muore è la sua droga. Eppure ad ogni crepuscolo il padre lo invoca guardando l’orizzonte. Spera che un giorno torni e gli si segga accanto, sotto il patio dove arriva l’odore dei gelsomini nelle giornate di primavera. Il secondo figlio si chiama Novembre. E’ un navigante che ha dimenticato la stabilità del continente. Manca da tanto agli occhi del padre, ma lo pensa spesso. E il vecchio lo sa. Di frequente si rivolge al mare con una silenziosa preghiera affinché lo protegga. Spera che un giorno possa poggiare di nuovo i piedi sulla terraferma e tornare a sedersi con lui, sotto il patio dove arriva l’odore dei gelsomini nelle giornate di primavera. Il terzo ha il suo stesso nome. E gli somiglia pure. Ama guardare le stelle e spesso si perde nell’immenso. C’è chi giura di averlo visto sollevarsi da terra, ma la gente ama esagerare. Va e viene. Si assenta per giorni ed il padre non ha mai chiesto dove andasse. L’importante e che lo ritrovi al suo fianco, sotto il patio dove arriva l’odore dei gelsomini nelle giornate di primavera.
C’è poi il giocatore con il fazzoletto grigio al collo. E’ nato in un paese lontano e porta una pistola alla cintola. Tra le mani ha un mazzo di carte. Gli altri sanno che è truccato, nonostante questo giocano e continueranno a giocare con quello. L’uomo è abile a distribuire le carte, le conosce e con sicurezza le assegna una ad una. Potrebbe dir prima le carte che ognuno ha tra le mani. Eppure non vince. Non ha mai vinto. E’ arrivato con un treno ed aveva in mano una borsa. Nella borsa c’era un libro di fede e trenta denari.
La donna si chiama Bellezza. Ha conosciuto l’amore e da allora lo cerca senza sosta. Ha superato montagne, attraversato anime e sentimenti. Conosciuto stanze d’albergo, carezzato capelli unti di odio e baciato bocche imbavagliate. Ogni tanto s’illude d’essere ancora innamorata. Ma poi scrolla le spalle e guarda davanti. Le sue figlie sono impenetrabili carezze di luce. Nacquero alla stessa ora, dello stesso giorno, nello stesso mese, a troppa distanza l’una dall’altra. La madre le conobbe per caso e da allora le ha legate ad un braccio con un filo di perle preziose. Se rimanete in silenzio ne sentirete il lamento, è il tormento di chi vorrebbe scappare senza far male.
I due appoggiati al muro sono invece i migliori a giocare. Non fatevi ingannare dall’aria distratta: conoscono il fiato di chi ha buone carte e il battito di ciglia dei perdenti. Sono abili, astuti e sottili. Nessuno dei due conosce il nome dell’altro, eppure giocano insieme da tanto. Vedete? Uno ha la gamba offesa, ne trascina il peso da quando sventolando  una bandiera è stato colpito da un pallottola vagante. Fu allora che conobbe il compagno. Tra le lacrime lo vide oltre la trincea, aveva un filo di fumo tra le dita ed era seduto su una roccia bagnata. S’aggiustava i capelli mentre dietro di lui il sole si spegneva lontano. Cantava, con voce di donna e  cuore di bambino, cantava in una lingua strana. Eppure, tenendo le spalle al tramonto, sollevò il ferito e lo portò lontano dalla spiaggia. Non so se siano amici, di sicuro sono fratelli.
Persone e vite diverse, lontane da noi come i lampi che tagliano il cielo, eppure sono i nostri portatori di luce. Non sorridete, sono vecchio, ma ancora lucido. Nelle notti in cui vagherete per le valli della solitudine potrebbero esser loro a trascinarvi via dall’incubo del dubbio.
No, non vendo illusioni. Li ho visti io raccogliere i resti delle mie certezze e rimetterli insieme. Lo hanno fatto più di una volta, senza chiedermi niente, senza alcuna ragione. Una volta ho domandato perché lo facessero, quello con la gamba offesa senza parlare toccò la spalla del compagno il quale a sua volta sfiorò quella della donna e così via sino al giocatore con il fazzoletto grigio al collo. Fu lui a poggiare la mano sulla mia spalla. Ci guardammo. Nel suo sguardo c’erano speranze ed  emozioni, angosce e paure. Ed erano le mie. Disorientato voltai la faccia incontrando il volto della donna. Il medesimo sguardo dell’altro. E poi il vecchio, i giocatori fratelli, tutti con lo stesso, uguale vestito degli occhi. Non sapevo che fare. Presi a fuggire. Immaginando di essere inseguito corsi sino ad un fiume di pietra. Girandomi temetti di esser stato raggiunto. Non c’era nessuno. Per un attimo tirai un grosso respiro. Poi una tenue sensazione s’affacciò alla porta dell’anima. Faticai a riconoscerla. Solo quando si fece pesante come una colpa ne riconobbi il sapore. Deluso. Ero deluso. Nessuno mi aveva seguito. Alzai la veste per muovermi meglio e lentamente tornai tra loro. “Ti aspettavamo” disse la donna stringendo una torcia tra le mani. “Ti aspettavamo… è ora di andare.”
Ci incamminammo lungo una strada di polvere scura. Lontano il bagliore di una città illuminava un cielo di nuvole grigie. Pensai fosse quella la meta, ma appena superata l’ultima collina svoltammo verso una radura su a nord. Raggiungemmo una piccola macchia dagli alberi con foglie color senape. Uno dei giocatori prese ad accendere un fuoco, un altro mischiava le carte. Sedemmo attorno alla fiamma ascoltando il silenzio. Avevo le braccia sulle ginocchia e la testa tra le mani quando un fruscio ruppe la notte diventando un rumore. Vicino, sempre più vicino. Mi alzai, fui il solo a farlo, dai fianchi della collina giungevano gruppi di persone. Parlavano tra loro ed indicavano la radura. Ebbi paura. Mi rivolsi ai miei compagni di viaggio ed uno di loro fece cenno di star calmo. Guardai ancora verso l’altura. Ora le persone erano tante, incontrandosi si fermavano un attimo, prima di riprendere ad andare. Avvertii qualcosa muoversi dietro di me. La donna aveva raccolto da terra un ramo pesante e lo ripuliva dal fogliame rimasto. Lo faceva con cura come se fosse quello il suo mestiere. S’accorse che la stavo fissando e sorrise. Un sorriso dolce come solo la speranza può esserlo. I capelli le scendevano sul petto incorniciandole il volto. L’avevo già veduta, ma non ricordavo dove. Tese la mano. Rimasi fermo. “Tieni” disse porgendomi il ramo nodoso. Lo raccolsi poggiandolo a terra a mo’ di bastone e cominciai ad andare. Ad ogni passo, il mio passo era più sicuro. Respiro dopo respiro la marcia si fece tranquilla. I giocatori erano dietro di me; non erano soli come non lo ero io. All’alba giungemmo ad un bivio. Scelsi senza pensarci, fu un segno tracciato per terra a farmi decidere. Ed ora sono qui a parlare con voi. Se non avessi creduto in quegli uomini, se li avessi abbandonati scegliendo altri sentieri sarei, ora, qui a raccontare di me?
Non vendo illusioni, dovreste saperlo. Certo, a volte ho mentito, ma agli uomini mai, l’ho fatto a me stesso.
In un giorno di aprile il giocatore più vecchio mi invitò a sedere sotto il portico della sua casa indicandomi un punto lontano. Strinsi gli occhi per capire se ci fosse qualcosa. Nulla. Il vecchio continuava ad indicare quel punto ed io a stringere gli occhi. Nulla. Allora il giocatore tirò fuori dalla tasca un mazzo di carte e lo lanciò in aria. Vidi le carte librarsi in direzioni diverse e cadere tutte, tutte davanti ai miei piedi. Ne raccolsi una. Era uguale alle altre. Decine di carte uguali, lo stesso seme, lo stesso colore. Irritato mi alzai e feci per andare, quando un odore di gelsomini inondò il calore dell’aria. Fu allora che mi voltai e compresi. Strinsi gli occhi e vidi. Era la strada dalla quale ero venuto, ed io ingannandomi, continuavo ad ignorarla. Raccolsi allora di nuovo al carta e la lanciai in aria. La osservai cadere ai piedi del vecchio. Sorrisi e sedetti accanto a lui a respirare l’odore di gelsomini.
Ridete? E perché? Mi prendete per folle? Forse lo sono, o meglio sono stato sul punto di esserlo quando ho scoperto che le figlie della donna con il nome Bellezza, sono nate nello stesso giorno, nello stesso mese e nella stessa ora in cui sono nato anch’io. O quando i due giocatori fratelli mi hanno accompagnato alla spiaggia dove si sono incontrati ricordandomi che c’ero anch’io quel giorno seduto su una roccia bagnata. O ancora scoprendo che il fazzoletto che ha al collo il giocatore straniero è stato mio prima che suo.
Dunque non vendo illusione e quindi mischiate le carte, l’ultima partita voglio giocarla con voi…