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I Racconti di Edoardo - Penna di Gabbiano

 Cosa sia successo dopo non lo so. Era il mio compleanno, e stavo lì, a pulire la spiaggia come tutti i giorni.
Non pensate sia un lavoro cattivo. D’estate, al mattino presto, è persino piacevole rimuovere gli avanzi del giorno prima. È come preparare il mondo al futuro. E poi trovi un sacco di cose. Anelli, bracciali, cappelli, soldi, indumenti intimi e persino lettere d’amore. Quelle le ho sempre conservate, non mi piaceva l’idea di gettarle tra i rifiuti. A casa ne avevo un cassetto pieno ed ogni tanto ne rileggevo qualcuna. Non sono mai stato un romantico, ma spesso tra le righe di quei fogli sballottati dal vento trovavo parole che avrei voluto saper dire io.
Riconoscevo subito le lettere d’amore. Avevano un aspetto diverso: o troppo stropicciate, ed erano parole sofferte; o piegate a dovere ed allora si trattava di dolci promesse finite nella sabbia, forse, per un eccesso di abbracci.
Appena ne scovavo una, lasciavo il rastrello, e come un ladro che entra furtivo nelle case di altri, mi affrettavo a scoprirne i segreti. Quanti sogni ho visto con occhi diversi e quante volte mi sono trovato a ripetere a mezza voce ciò che leggevo, immaginando come sarebbe stata la vita se… ma questa è un’altra storia.
Comunque in estate era bello rimanere sulla spiaggia fino a quando i primi ombrelloni s’aprivano e ricominciava l’allegro frastuono di una giornata al mare.
D’inverno le cose cambiavano. Tutto diventava opaco e il fiato del mattino, gelido, come lo sguardo di una donna senza amore. Sono i giorni in cui il mare vuole esser lasciato solo a parlare con il vento. E invece io ero lì, un estraneo intento a pulire una spiaggia che di nulla aveva bisogno se non di stare per i fatti suoi.
Quando fa freddo è raro trovare oggetti diversi da rami secchi e bottiglie vuote che sanno di tristezza. In quel periodo sono i gabbiani i veri signori del posto. Si posano piano e prendono a beccare tra i granelli di sabbia guardandosi intorno increduli di tanta tranquillità. Ricordo che, incrociando il mio sguardo, li scoprivo perplessi e stupiti. Allora, per non disturbare, sedevo aspettando che s’allontanassero, spiegando le ali verso un sole che non potevo vedere. A volte mi stendevo sulla sabbia umida e, chiudendo gli occhi, immaginavo di volare assaporando l’abbraccio del vento.
Anche quel giorno avrebbe potuto essere così. La sveglia alla solita ora, l’abituale colazione fatta di caffè e solitudine, vestirsi senza fretta e poi il rastrello e la sabbia. Mentre andavo ricordai quel che avevo sognato. All’apparenza mi parve persino banale, a chi non è mai capitato di rivedersi nel sonno intento al proprio lavoro, ma più andavo avanti meglio si delineavano i contorni del sogno. La spiaggia era quella che ben conoscevo e, accanto a dei fogli di carta, una penna di gabbiano che il vento non riusciva a spostare. Sorrisi pensando che a alla mia età può capitare di lasciarsi andare a immagini suggestive. Abbandonando per strada la notte, salutai la signora del bar e festeggiai il mio compleanno con un dito d’anice in una tazzina di caffè nero.
La signora del bar la conoscevo piuttosto bene. Era sposata con un tizio troppo attento ai soldi per accorgersi che la moglie, una donna ancora piacente, aveva una passione sfrenata per i pomeriggi di sesso clandestino. In uno di questi scoprii come in realtà cercasse solo parole d’amore e leggeva Hikmet. A volte, mentre lo facevamo, la chiamavo con un altro nome. Lei scuoteva la testa e carezzandomi diceva di capire. Oh Dio, come avrei voluto capire anch’io. Non sono mai riuscito ad amarla, e questo mi è dispiaciuto, ma le volevo bene e sentivo il suo vero respiro nei gemiti dell’amplesso. Fu lei a ricordarsi del mio compleanno. Appena entrato nel bar, s’illuminò donandomi un bacio che d’amichevole aveva ben poco. Rimasi ad occhi sbarrati, attento ai movimenti del marito nel retrobottega ed abbozzai uno stupido grazie che per poco non rovinò il suo entusiasmo. Ma davanti al caffè mi rifeci, proponendole di vederci l’indomani al solito posto. Fece finta di resistere, ma durò niente e ci lasciammo assaporando il piacere di una maliziosa complicità.
La spiaggia era deserta. Il cielo sapeva di pioggia e il profumo del mare riempiva lo spazio. Andavo verso il faro quando sentii un rumore alle mie spalle. Mi voltai. Non c’era nessuno, solo un gabbiano intento a fissarmi. Che vuoi? Chiesi come si fa con i bambini di latte ben sapendo di rimaner senza risposta. L’animale mosse le ali come a pulirle, voltò il becco verso il mare e continuò a star lì impalato.
Ho sempre pensato che i compleanni sono giorni terribili. Se sei giovane ti rammentano di come il tempo passa. Se non lo sei più, ti ricordano che il tempo è passato. Chi  li festeggia lo fa solo per addolcirne il senso.
In ogni caso, quella mattina stavo proprio riflettendo su questo. Scorrevano nella mente immagini che pensavo perdute tra le nebbie del tempo. Alzando lo sguardo verso le nuvole che arrivavano dall’orizzonte pensai all’amore. Quello vero. Lo avevo provato, lo avevo vissuto, lo avevo ancora dentro di me. Non c’erano né rimpianti ne rimorsi, l’unico tormento era il dubbio di non esser riuscito a farle capire quanto l’amassi e mi chiedevo se, da qualche parte nel cielo, s’accorgesse della gioia incontenibile che provavo nel ripensare ai suoi occhi… ma questa è un’altra storia.
Tirai su il rastrello e ripresi il lavoro. Fischiettando un motivo in voga ai miei tempi mi piegai – nonostante la schiena – a raccogliere un pezzo di vetro quando sentii distintamente chiamarmi. Mi voltai di scatto. Nessuno. Solo lo stesso gabbiano di prima che pareva deciso a tenermi compagnia. Mi avvicinai convinto che dopo qualche passo sarebbe volato via. Ed invece rimase fermo, senza mostrare paura.
Allora sei tu? Gli chiesi. E stavolta, se avesse risposto, credetemi, non ne sarei stato sorpreso. L’animale prese ad allontanarsi con calma, pizzicando ogni tanto la sabbia. Ehi, gridai quasi contrariato di non aver ricevuto attenzione. Il gabbiano lasciò andare un grido e riprese la marcia. Non vi nascondo che mi sentii un po’ scemo. Ero fermo, con un rastrello in mano, una busta di spazzatura attaccata alla cintola, un paio di stivali modello pescatore, a parlare con un uccello.
Un brivido mi scosse: la vecchiaia sta facendo i suoi  danni pensai e ripresi il lavoro con irritazione. Di tanto in tanto mi voltavo a guardare il gabbiano che sembrava convinto a non lasciare la spiaggia. Anzi, ogni volta che volgevo lo sguardo verso di lui era come se mi invitasse a seguirlo. E dopo un po’ lo feci.
Camminare dietro un gabbiano non è proprio il massimo della logica. Me ne rendevo conto, ma non farlo sarebbe stato come lasciare una porta chiusa dopo aver girato la maniglia. Arrivammo vicino agli scogli ed il gabbiano vi saltò sopra con un balzo. E’ difficile che posso venir lì. Dissi a voce alta, memore dei dolori alla schiena quando, con la barista, cercavo di dimenticare l’età. Il mio compagno con le ali non si scompose. Rimanemmo così per qualche minuto. Il gabbiano sullo scoglio, io a guardarlo e le onde a dimenarsi tranquille sulla musica del vento. Alla fine vinse lui e decisi di intraprendere la piccola scalata. Non feci in tempo nemmeno ad alzare una gamba che vidi, incastrati tra le pietre dei fogli a quadretti con i lembi bagnati. Penso che fu l’abitudine e li raccolsi. Una scrittura minuscola riempiva ogni riga. Era la grafia di una donna. A quel punto il gabbiano lanciò il suo grido di libertà spiccando il volo verso l’orizzonte.
Sbuffando e un po’ stanco, sedetti sulla rena umida e aprii i fogli per leggere.  Le parole scivolavano soffici, raccontavano una storia. La mia storia. Dire che rimasi sbalordito è poco. Non sapevo cosa pensare. Guardai intorno cercando, vanamente, una spiegazione in quel che mi circondava. Magari, non so, una persona che avevo conosciuto e che si era divertita a farmi uno scherzo… ma il gabbiano?
Scorrere le frasi era il rifiorire d’emozioni vissute. Fu come scoprirsi dentro e in fondo provavo piacere a ritrovarmi. Poi tra le righe vidi lei. E ritornò, impetuoso, il senso di dolcezza che mai più avevo provato. Strinsi nei pugni i fogli di carta e li portai al petto. Ti stringevo forte, come avevo fatto tante volte. Tutto era pieno di te. L’aria, il mare, persino la sabbia che s’infilava tra le unghie eri tu. L’amore non muore piccola mia. Sussurrai provando di nuovo il calore delle tue labbra. Non ebbi la forza di alzarmi e stesi le gambe.
Quel che accadde dopo non lo so. Ricordo il vento, i granelli di sabbia che correvano veloci sopra il mio viso. Il rumore del mare e il grido dei gabbiani. Poi venne il buio. Mi sto addormentando, pensai lasciandomi andare.
Fu un sonno pesante, senza tempo e paura. Riaprendo gli occhi vidi il mare sotto di me. Stupito voltai il capo e tu eri lì, più bella che mai, meraviglioso gabbiano padrone dell’aria. E ti seguivo, felice senza alcun timore del vuoto.
Planammo verso la spiaggia e nei pressi degli scogli scorgemmo dei fogli di carta segnati da una grafia piccola e dolce. Con il becco strappasti dalle mie ali una penna e la lasciasti cadere accanto a quei fogli. Poi, finalmente insieme, volammo verso un sole che non conoscevo… ma questa è un’altra storia.